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Bisognerà che dimentichi questa giornata. Persi dieci dollari alle corse dei cavalli, oggi.

Che futilità. Farei meglio a ficcare l’uccello in una crêpe allo sciroppo d’acero.

On Writing Charles Bukowski

 

Da due mesi mi sono isolata sull’isola che c’è.

Fuggiasca e tormentata come Monica Vitti nel film L’Avventura (1960) di Michelangelo Antonioni, girato alle Eolie.

«C’era una bambina che viveva in un’isola. A stare con i grandi si annoiava, le facevano paura. I ragazzi della sua età non le piacevano perché giocavano a fare i grandi e così stava sempre sola. Aveva scoperto una piccola spiaggia lontano dal paese dove il mare era trasparente e la sabbia rosa. Voleva bene a quel posto: la natura aveva dei colori così belli e niente faceva rumore».

Sbarcai il 5 settembre in compagnia di un amico, partito, e sulla nave conobbi un amante, partito anche lui per altri lidi.

A tenermi compagnia sono rimasti i libri, miei compari di viaggio e di vita.

Jean-Paul Dubois

Giovedì 3 settembre usciva in Italia il romanzo Non Stiamo Tutti Al Mondo Nello Stesso Modo dello scrittore francese Jean-Paul Dubois, vincitore nel 2019 del Prix Goncourt. Non volevo partire senza. Ne avevo letto sul Domenicale del Sole24Ore e la figura di questo scrittore mi aveva affascinato. Dubois aveva scritto il romanzo in un mese, come da sua rigorosa e bizzarra abitudine.

Intervistatore: “Quindi, quando scrive?”

Dubois: “Un mese all’anno. Dal 1 al 30 marzo, tenendomi il 31 per le correzioni o per scrivere qualche pagina ancora mancante. E’ semplice: 8 pagine al giorno, 30 giorni, 240 pagine ovvero la dimensione media di un romanzo. E quando scrivo non penso ad altro: comincio alle 10 e finisco alle 4 del mattino, ogni giorno. E’ una routine da sportivo, sempre uguale per tutti i miei romanzi, che mi serve per entrare in me, per essere efficiente. In quei giorni metto tutto me stesso, cerco di essere il più leale possibile con me e con i lettori. Quando scrivo non vivo. Ma vivere mi serve per scrivere.

Nei restanti undici mesi, Dubois vive nel suo mondo a Tolosa, cura il giardino, suona il piano, viaggia nel Québec, cammina e si dedica a sua moglie: “Tra un buon libro e un buon paio di scarpe, io sceglierò sempre un buon paio di scarpe. Perché sono le scarpe a permettermi di attraversare il mondo e la vita, e i libri sgorgano da quello che ho vissuto.”

Quando la rivista Nouvel Observateur dell’epoca d’oro cercò d’ingaggiarlo come inviato, Dubois rispose: “Non vengo in redazione, resto a Tolosa e poi racconto storie in giro per il mondo. Soprattutto, tu mi offri 1000? Ne prendo 700, ma nei 300 che mancano c’è il mio diritto alla pigrizia e alla tristezza. Se ho la luna storta, non dovete rompermi le scatole.”

Il romanzo è un viaggio nell’anima di un uomo tranquillo sullo sfondo cangiante di diversi mondi, un inno alla giustizia dei cuori e alla possibilità, data a chi ne coltiva la memoria senza giudicare, di vivere in pace con i propri fantasmi. Un viaggio nello spazio, ma soprattutto nel tempo, in compagnia di presenze fantasmatiche che abitano la cella in cui Paul è rinchiuso. Alti e bassi, disperazione e ironia, picchi di spiritualità e discese negli abissi del gioco d’azzardo, slanci di generosità e bassezze degli esseri umani… c’è tutto in questo libro che senza retorica, ma con un grande senso di vicinanza ai personaggi, racconta la nostra vita consapevole che «non stiamo tutti al mondo allo stesso modo».

Sbarcata dalla nave all’alba, andai con il libro in fondo alla nera spiaggia nudista per rilassarmi al mare. Colta da colpo di sonno, m’addormentai ignuda sulla sabbia e fui travolta da (in)solita ondata provocata dall’aliscafo che inondò me, i miei stracci e il libro. Sopravvissuto malconcio, il libro si fece salmastro. In corso d’innamoramento per un ricercatore di vulcani, glielo donai perché me lo riportasse al suo rientro in isola. Allora disseminai dentro il libro dediche, parole, sabbia, una fotografia, un incenso, un preservativo …

Il libro fu vittima di tsunami sulla spiaggia dove ci vedemmo nudi la prima volta. Spossata dal viaggio, mi lasciai travolgere da onda anomala. Sopravvissi. Anche Iddu, il libro. Te lo consegno. Mi eccita sapere che leggerai tornando in terraferma quello che io ho letto in moto ondoso sull’isola.

Questo non avvenne perché il libro mi fu riportato senza essere stato letto. Non colse né le parole né raccolse i doni che giacevano ancora all’interno delle sue pagine. La prima avvisaglia della conseguente cocente delusione.

Più intimo darti un libro – sublime – come questo o tanto intimo come concedermi la fragilità.

Ahinoi, la parola fragilità mi sarebbe stata mossa contro a mo’ di accusa un mese dopo quando il non così impavido ricercatore sbarcò di nuovo, dopo l’amorosa condivisa attesa. Rinfacciarmi le parole è vile. Mi viene da citare una frase del libro: “Non rompermi le palle con le tue cagate.”

Sempre su quelle pagine scrissi:

Questo romanzo è un inno all’inettitudine, al fallimento di vita, all’arte di sprecare la propria vita, allo stare e non fare. Come dice Paul Hansen, protagonista e narratore del libro: «esistono infiniti modi di perdere la vita». Non l’ho finito e già mi manca staccarmene. Ho disseminato tracce nel libro. Sentimentali sedimenti. Pomici bionde scaturite dal ventre. Ti dedico nuda e cruda la mia passione per le parole. Per i sensi. Per le vette. Per il pericolo sublime di ‘succhiare il midollo della vita … per non scoprire in punto di morte di non aver vissuto’ citazione da Walden di Henry David Thoreau. La mia calligrafia è ostica. Scalami. Tua Idda.

L’ho amato.

Il libro.

Il ricercatore.

Non mi vergogno né mi nascondo, io. Non mi (s)vendo come altro da me. Io ho lo sfacciato coraggio di mostrarmi nuda, non solo fisicamente.

Di aprire cuore e cosce.

Di farmi penetrare dentro, in fondo.

Nell’utero e nell’anima.

Di rivendicare come vero vissuto la passione trascorsa e scorsa via. Non necessito alibi e scuse, io. Vado fiera dei miei fallimenti di cuore perché è solo vivendo sbagliando che s’impara a compiere altri errori ma quali immense vicissitudini e avventure mi concedo di trovare e sperimentare sul sentiero che batto.

Paul Hansen dice: «Basta prestare attenzione e aprire gli occhi per capire che facciamo tutti parte di una gigantesca sinfonia che, ogni mattina, in una scintillante cacofonia, improvvisa la sua sopravvivenza». All’inizio del romanzo Paul è rinchiuso in un carcere canadese da due anni, solo alla fine si scoprirà il motivo. Il suo compagno è Patrick Horton, un Hell’s Angel tatuato, un colosso in realtà fragilissimo. Quest’ambivalenza nei personaggi è un tratto ricorrente. Anche Paul è un’anima divisa in due. Privato della sua libertà, paradossalmente è più libero che mai perché ha il tempo dalla sua parte e può così rievocare il passato e farci i conti.

Paul ci racconta della sua infanzia a Tolosa con due genitori agli antipodi: il padre danese Johanes Hansen «di professione pastore protestante» e la madre, una femminista ante-litteram che eredita dai genitori un cinema che dopo l’epoca d’oro degli anni 60-70 subisce un rapido declino fino a diventare, nel 1975, la sala che proietta Gola profonda, con le inevitabili ripercussioni che questa decisione comporta sul ménage familiare.

Questo capitolo s’intitola La Profondità delle Gole dove, parlando del porno cult degli anni Settanta, il narratore scrive: “Trama e dialoghi potevano starci su un francobollo, la storia si basava esclusivamente sui prodigi buccofaringei dell’eroina, Linda Lovelace, circondata da attori dilettanti pronti a fornire generosamente il loro fisico.”

Su quella pagina scrissi a matita rossa “500 metri” perché fu a quell’altezza sotto le pendici del vulcano che m’inginocchiai per compiere prodigiosa performance buccofaringea sul ricercatore. Lui stesso, a sua volta, s’inchinò tra le mie ardenti e dilatate cosce per succhiarmi a fondo mentre emettevo incandescenti gemiti di lavico piacere. In vetta. Tale fu l’eruttiva passione che ci prese da rotolarci nella terra vulcanica, inondandoci i corpi di terra, cenere, liquidi e sperma.

I miei amori non peccano certo d’assenza d’intensità. Anzi, l’intensità è l’essenza della loro fugacità.

Piuttosto mancano di durata.

Me ne fotto.

E fotto.

Quanto amo scopare. Godere. Gemere. Arrendermi. Sottomettermi. Sottomettere.

Che parossistica goduria abbiamo condiviso in abbondanza, anzi in “straripanza” fino a quando non abbiamo entrambi compreso di essere, per citare le parole del libro, “due partiture dissonanti e antinomiche.”

E quando una porta si chiude, anche in faccia, un portone si spalanca …

Delusa e rattristata, vagando errabonda per le autunnali viuzze del paesino m’imbattei in un bel giovane locale, maltrattato in passato dalla stizzosa milanese nella sua più stronza interpretazione della bottana industriale. In quell’attimo, l’isola ci diede in dono l’incontro.

Mai rifiutare, peggio, sprecare i doni degli dei, ancor più essenziali in questi cupi pandemici tempi. Due anime distanti, per età, origini, percorsi, trascorsi eppure così anelanti unione carnale. In quella notte ci ritrovammo sull’incantata terrazza di Casa degli Angeli, sorta di Bini-Shell1 isolana, a condividere nettare degli dei e stupefacenti boccate di vita. Ci baciammo come fosse la prima volta.

Non lo era ma la prima vera volta fu vittima dell’oblio dei miei selvaggi anni 30. Avvenne in un vicolo di fretta, di furia, di sbronza. Il giovane ricordava ogni indelebile istante d’istantanea passione estiva. Mi raccontò di aver danzato di gioia dopo il frettoloso accoppiamento. Io dimenticai. Troppi gli incontri e scontri in quei dannati anni passati. Lui perdonò la mia imperdonabile dimenticanza.

Fu allora che sentii nascermi dentro il possente desiderio di cancellare il mal-scopato e re-iniziare de puta madre il giovane ai sensuali e sessuali sollazzi. Accogliendolo e coccolandolo a parole, a carezze, a baci. Dilatando i tempi del carnage. Ascoltandolo per la prima volta parlare della sua isolana vita. Dei suoi turbamenti. Dei suoi sogni.

Quest’autunno isolato e isolano mi concede il tempo e la sensibilità di rallentarmi, di scoprire l’altra faccia della luna, sia mia sia degli abitanti, di mostrare la mia quiete dopo la tempesta dei miei anni giovanili.

Mi vuoi spossare? R.

Annotai su un post-it che lasciai nel libro. Il ricercatore non lo fece. Non doveva, né poteva essere lui.

La mia irrefrenabile e indomabile energia erotica pretende ritmo costanza e devianza di massima intensità.

Devo essere battuta e sbattuta. Choked. Abusata. Annichilita.

Ci vuole un fisico bestiale per domare la bestia che mi pulsa dentro.

Pretendo massiccia soma sul mio dorso.

Violentami, costringimi a godere,

fendendomi con tutta la tua forza,

e fa’ di me secondo il tuo volere,

sii il mio flagello, dammi fuoco e forza

Poesie Erotiche di Patrizia Valduga

Voglio anche la dolcezza dei corpi nudi che giacciono esanimi nel letto, stretti, sudati, invischiati di liquidi odori e umori.

Voglio il risveglio illuminato dai colori dell’alba sul mare avvinghiati sotto le lenzuola, mentre me lo infila dietro ansimante e stantuffante. Scopami da coniglietto. Strattonami i capelli. Strofinami il clitoride fino a farmi sgorgare dalla gola profonda il fragore dell’orgasmo.

Compatisco chi teme l’intimità.

Io non temo più nulla.

Il giovane non teme, freme, non trattiene, zampilla, non tentenna, stravolge con il vigore della Meglio Gioventù.

Come sole e luna, ogni amore sorge e tramonta.

Per questo ogni scampolo di stupefacente estasi va colto, accolto, raccolto, ingoiato, divorato.

Come se non ci fosse un domani.

Per parafrasare la citazione di Bukowski, che campeggia all’inizio del libro:

Che fatalità. Farei meglio a ficcare la figa in un fresco biscotto allo scirocco.

 

Stromboli, 4 novembre 2020

 

1 La Bini-Shell fu il nido d’amore che Antonioni commissionò all’architetto Dante Bini per l’amata Monica Vitti. Era una cupola di cemento, una sfera a forma di conchiglia immersa su una scogliera sulla Costa Nera nella natura selvaggia della Sardegna. Antonioni chiese che ne fossero costruite due perché i due amanti hanno sempre amato la propria indipendenza vivendo so far so close.

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