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Le avventure dell’Allegro Leprotto e altre storie inospitali. Intervista ad Andrea Raos

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Gianluca Garrapa: ho appena finito di leggere Le avventure dell’Allegro Leprotto e altre storie inospitali. di Andrea Raos. Arcipelago Itaca Ed. nella collana Lacustrine. 2017. e.

non sento che il desiderio. quando si traduce nel gesto della scrittura. possa etichettare le vie dell’inchiostro in un genere. e morire. la poesia. lituraterra. litorale (incrociando i dati con le lettere) di nuvole e mare. poi. è transgenere per natura. che per cultura ci si affatica a contenere. in un cerchio che concluda. che chiarisca. che non ferisca il raziocinio. catalogante. ma in questo gioco che è l’esistenza. la scrittura dell’allegro leprotto aderisce. lieve. forte. tagliente. malinconica. crudele. dolce. al mutevole. all’esistente che esperisce. sicché non è più lecito liberare un desiderio scrittrivo e costringerlo. nel chiostro descrittivo. mutevole. mai muta. la scrittura dell’allegro leprotto. si costruisce da sé il suo tragitto. la scrittura per Andrea Raos. qui. a me che ne scrivo. sembra. nel ricordo del suono. nel disegno preciso. nel frastuono umano. nel materico oggettivo. nell’immateriale laico. e altro. e oltre. “decide di andare a vedere com’è fatto il cielo”. e come è fatto il cielo? come la scrittura. qui. per Andrea Raos.

Lettere nere: la tua è poesia di ricerca. ora penso a un qualche rapporto della parola con il nucleo di sé stessa. come è della scienza dare spiegazioni dell’inspiegabile, dare luce all’infinito piccolo e portare all’occhio il lontanissimo, come è della religione ossessionare il vuoto diabolico e farlo rientrare in una categoria dell’essere che escluda financo la morte, i paralogismi della vita eterna come della trasmigrazione, così l’arte e la poesia in questo caso è l’atto, invece, disconoscitivo della parola: il suo porsi nell’ineffabile, che c’è ma non trova parola per dirsi. e pure in altro modo. il mondo è lì. qui dentro. “sul bordo della piaga-memoria”. è scrittura che nasce nel transito. nello staccarsi dal ramo della foglia e ancora non ha forma di foglia a terra. nel ticchettio del mare sulla linea della terra. è visione nera a occhi chiusi. e non è così che nascono i sogni?

Andrea Raos: Se posso aggiungo, perché la tua “visione nera a occhi chiusi” me l’ha ricordata, una frase da un altro mio libro, I cani dello Chott el-Jerid (2010): “Non i corpi freddi della morte ma la laguna calda, evaporata, dei cadaveri a 60 gradi neri nella luce”.

Gianluca Garrapa: “Questo tema è trattato in sette capitoli

più prologo e un epilogo:”

Apertura e litorale mi sembrano essere un po’, correggimi se sbaglio, la trama e l’ordito che imbastiscono lo spazio bianco della tua scrittura. Rispetto a questi due significanti cosa puoi raccontarci del libro, intendo Le avventure dell’Allegro Leprotto?

Andrea Raos: Che belle domande e riflessioni che fai… Mi riferisco anche alle successive. Il mio desiderio (vero, non retorico) sarebbe lasciarle così come sono in modo che ciascun lettore le faccia proprie accostandole, se vogliono, alla lettura dei miei libri.

Comunque, tengo almeno a dire quanto sono felice che tu abbia deciso di accostare Lettere nere e Le avventure dell’Allegro Leprotto, perché in effetti sono stati pensati seguendo un procedimento simile: essenzialmente un costruirsi progressivo che io per primo scoprivo nel corso del suo farsi (altri miei libri sono un po’ più strutturati, perlomeno nelle intenzioni).

Capii di avere concluso Lettere nere, pubblicato nel 2013 ma scritto circa quindici anni prima, quando scrissi la scena dei granchietti sulla spiaggia. Di questo mi chiedi tu dopo quindi per ora mi fermo qui.

L’Allegro Leprotto invece si irradia a partire dagli episodi avventurosi, un po’ come i cerchi dei sassi lanciati in acqua. A proposito del titolo di questo tengo ad aggiungere, perché forse è passato inosservato anche tra i pochissimi lettori di quel libro e perché io stesso nell’intervista alla radio ho dimenticato di dirlo, che “storie inospitali” cita il titolo di una raccolta di racconti di Hans Henny Jahnn curata da Domenico Pinto e pubblicata nel 2011 con anche una mia breve postfazione. Un libro secondo me meraviglioso, che non è stato letto abbastanza né mai lo sarà (13 storie inospitali, edizioni Lavieri).

Gianluca Garrapa: In Lettere nere leggo: “Rileggendo quest’opera, che oggi mi sembra scritta da un altro, […]”: la prosa e la poesia di questo testo anche quando rinuncia all’opacità, resta generativa e nera, o bianca, secondo il valore che affidiamo al colore, e insomma: spazio aperto e cieco, non luogo svuotato ma di un vuoto ricco di senso, vibrante di vita. Ti manchi, ti sottrai e quel che risulta è una sottrazione di senso che ci riguarda. Letti, più che lettori. Ho visto che qui non c’è altro dell’altro, non c’è metafora, ma pura superficie. Il vuoto, intorno a cui ruota lo scrivere. Ho associato questa postura del corpo che scrive, al vuoto desiderante e anche al tuo rapporto con la cultura giapponese: vuoto non è mai mancanza, negativa, sterile: come diventa operativo nella tua ricerca letteraria?

Andrea Raos: “che oggi mi sembra scritta da un altro”: magari fosse stato vero…

Comunque è certo che mi interessano molto i processi di lettura e di ascolto, più che di affermazione e produzione che pure esistono e accadono. Questo sì, penso di averlo imparato in Giappone (non tanto il “vuoto”, quindi, che è una generalizzazione). Ma sono abbastanza certo che sarebbe potuto succedere anche altrove, e in effetti spero che accadrà. A contare davvero è lo spostamento d’aria, forse, e lo spazio che apre.

Gianluca Garrapa: Sia in Lettere nere e ne Le avventure dell’Allegro Leprotto il litorale, si è detto, ritorna, torna, contorna la sparizione dell’io, non sono rare le immaginazioni della risacca, del lambito suolo dal mare, sulla sabbia su cui piove il significante e sulla superficie scivola il litorale. Effimera la parola si apre e respira, si richiude, nomina spazi consueti con diciture differenti, segni. Pioggia di significanti soggettivi, rispetto alla quale l’ombrello della tradizione blocca il potente flusso rigenerante. Ma poi il soggettivo è universale, quando insomma la scrittura si allunga da un comune cielo desiderante e non è spontaneo smettere l’autoreferenza pur raccontando sé stessi: “Dunque in me accade che lingua e postura / si adattino l’una all’altra. / Però il primo a cambiare / a seconda della lingua che parlo / è il corpo collocato nello spazio” (Allegro Leprotto): il tuo corpo, la tradizione, le cellule costantemente mutevoli e uguali, la legge immutabile del già scritto: come si sanno articolare queste identità rispetto, appunto, alla postura e alla lingua?

Andrea Raos: Anche a questo mi sembra di rispondere parlando sotto dei granchietti. Non vorrei ripetermi troppo, a rischio di annoiare…

Gianluca Garrapa: Ma non è facile. Spesso inospitale. La vita. “Il gusto innato per l’ostacolo” si legge in Lettere nere: ma pure non c’è solo nero ingorgo che blocca, o bianco accecante nulla, non v’è disperante morte in vita o assillante pessimismo: c’è anche l’opposto esatto: “Cosa sono / e traducono / l’urlo e il rumore?” ci si stringe, da destra e da sinistra, per così dire, ci si avvicina all’asintoto del vuoto ineffabile della Cosa. Si vede che bianco o nero, non è contraddizione, ma due momenti del respiro: l’ostacolo genera ulteriori slanci, la morte ulteriore vita. La tua scrittura quanto deve alla poesia della quantistica, per esempio, o alla cosmologia?

Andrea Raos: “Il gusto innato per l’ostacolo” l’avevo preso mi pare da Baudelaire, se interessa saperlo.

Al livello divulgativo che è l’unico che mi è accessibile, leggo più letteratura scientifica che posso. Queste letture erano state cruciali in particolare per un altro mio libro, Le api migratori (2007). Cercavo modelli formali per rappresentare, o sinfonizzare, i movimenti degli sciami e dell’occhio che li segue. E da lì mi si erano spalancati mondi infiniti. Ci sono più arte e invenzione lì che in tanta letteratura, no?

Gianluca Garrapa: “Andrea Araos mi lasciò parlare senza interrompermi mentre sgranocchiava gli ultimi carciofini e poi, senza perdere tempo a correggere la mia cazzata su Bolaño, attaccò lei:” scrive spesso Andrea di sé, persona? personaggio? alla terza persona che siamo quando, distanza dal nostro ingombrante ego, riusciamo con difficoltà a prenderci le distanze. Tante volte è successo nella letteratura e nella lirica. Ma qui la lirica è declinata secondo un clinamen che fa prosa, (e vari sguardi di prosa) e fa altro, oltre a essere poesia, o, come si dovrebbe dire per certa scrittura, poesia o prosa, scrittura desiderante. Nella scrittura di Andrea Raos difficilmente il soggetto degli enunciati e il soggetto delle enunciazioni corrispondono. Non solo non stai realmente parlando di te, ma forse meglio degli altri, ma tu stesso, mentre ne scrivi, non sei te stesso. O meglio Andrea Raos sa dislocarsi in punti altri dell’inconscio letterario, e il libro diventa, come leggo nell’Allegro Leprotto, “il punto buio”. Chi sono i tuoi maestri e chi è, insomma Andrea Araos\Andrea Raos: dove sei quando scrivi, o sei scritto, per meglio dire?

Andrea Raos: Giunge il momento dello scoop che tanto attendevi: Andrea Araos non l’ho inventata io, esiste davvero. All’inizio di quella parte del libro racconto ciò che in effetti è successo: gli indirizzi email simili che provocano errori di recapito, le coincidenze stranianti come lo scoprire di avere conoscenti in comune… Poi, il fatto che Andrea è cilena mi aveva fatto pensare a Bolaño e quindi avevo deciso di provare a giocarci sopra. Ne è scaturita una pagina che è costruita su specchi, rifrazioni e alter ego, in modi anche “segreti”.

Per esempio, l’incontro in pizzeria si svolge a Parigi in rue des Quatre Frères, strada che non esiste ma “Aux Quatre Frères” è il nome di un ristorante di couscous fattomi scoprire dal romanziere Giacomo Sartori quando abitavamo entrambi da quelle parti, a Belleville. È ottimo e costa poco, te lo consiglio. Una volta ci portai anche Carla Benedetti e un Fabio Pedone pre-Finnegans, e non ricordo lamentele sul cibo.

Oppure, a un certo punto scrivo che mi sembra di intravedere (riflesso in una vetrina, appunto) un certo “Martini”. Martini è il nome con cui Andrea Inglese mi ha ritratto nel suo romanzo Parigi è un desiderio. Quindi lì immagino l’incontro con il mio Doppelgänger, diversi anni e diversi disastri esistenziali dopo l’epoca raccontata da Inglese, e anche Andrea nel libro a un certo punto accenna a un leprotto (il nome di un bar, se non ricordo male). Il termine tecnico per queste battute che capiamo (e fanno ridere) solo noi credo sia easter eggs; siamo ragazzi semplici, ci divertiamo con poco…

Dunque il dialogo in pizzeria con Andrea Araos è inventato, ma anni dopo (a febbraio 2019, per l’esattezza) ci siamo incontrati davvero. Ero di passaggio a Parigi e abbiamo pranzato insieme, parlato di un sacco di cose, e poi fatto due passi nel Quartiere latino dove ci eravamo dati appuntamento. A pranzo avevamo bevuto per cui eravamo un po’ sbronzi e su di giri; a un certo punto passiamo davanti a un palazzo come tanti, anonimo e senza targhe, Andrea si ferma e mi dice: “Qui aveva soggiornato Víctor Jara”. E ricordo che sentii attraversarmi come un’onda elettrica.

Nel dialogo inventato progressivamente le voci si confondono. Penso che sarebbe bello se un giorno o l’altro Andrea Araos e io ne facessimo una lettura pubblica a due.

Temo di non avere risposto alla parte della tua domanda sui “maestri”; un po’ di più, spero, sul dove mi trovo quando la scrittura e tutto il resto accadono.

Gianluca Garrapa: L’ultima parte dell’Allegro Leprotto, mi ha commosso e divertito. Detto così sembra una cosa molto semplice e banale. Ma in effetti l’oggetto sconosciuto della scrittura che qui si piega differisce politica, sociologia, considerazioni antropologiche, ricordi. I ricordi hanno un’assenza pregnante, e descrittiva del momento. È nel flusso tutt’uno che ha senso il non presente del ricordo e per questo non c’è mai ripiegarsi dentro l’io narcisistico, ma desiderio-pangea che collega i frammenti di altre storie e si apre all’altro. Allora ti chiedo di spiegarci la scrittura di questa settima e ultima parte dell’Allegro Leprotto (L’aprile del 2012) alla luce della ristampa del tuo\vostro Prosa in prosa riedito da Tic edizioni: cosa è mutato nel tragitto della tua ricerca?

Andrea Raos: In Prosa in prosa sono presente con testi tratti da Lettere nere allora ancora inedito, ovvero scritti circa dieci anni prima degli altri in una temperie completamente diversa. Avevo scelto una sezione di Lettere nere che mischia versi e prosa, una specie di diario notturno del ritorno da una festa un po’ allucinata, perché temevo interpretazioni troppo scolastiche della “formula” della prosa in prosa che puntualmente ci sono state – e a monte perché Gleize lo stimo molto ma non è fra i miei autori preferiti, troppo accademico e monacale per i miei gusti; e poi all’epoca vivevo in Francia, potenzialmente molto vicino a lui e quindi forse bisognoso di “distinguermi” (faccio un po’ il Bourdieu della domenica) da un autore di cui percepivo più il peso che l’interesse.

Sta di fatto che in questi anni Prosa in prosa ha suscitato molte reazioni ma il mio contributo mi pare sia stato sostanzialmente ignorato; col senno di poi penso sia giusto così, e lo dico senza ironia. Non tutto può – deve, tantomeno – essere detto dovunque e in qualunque momento, e da me poi.

E insomma in Prosa in prosa mi sembra di esserci soprattutto come osservatore; è un libro da cui io per primo, leggendo gli altri autori, ho imparato moltissimo ed è bello sapere oggi – questa ristampa lo dimostra – che non sono stato l’unico. Non che i critici, con rare eccezioni, ci abbiano capito molto, ma questo non è importante; invece se scrittori e scrittrici più giovani ne hanno colto l’invito al viaggio – di quello si trattava, alla fine – per me basta e avanza.

Intendo dire che la trasmissione da una generazione alla successiva è fondamentale. È l’esatto contrario di un’investitura, sia chiaro, perché basata sull’essere sempre critica e criticabile. Se i critici “di mestiere” sono capaci di aiutare a compierla tanto meglio; altrimenti ce la facciamo da soli e va bene anche così.

Sono molto felice che ti sia piaciuta la sezione finale dell’Allegro Leprotto, è forse il capitolo del libro a cui tengo di più. Quel viaggio in Libia è stato una delle esperienze più forti e trasformanti della mia vita, non l’unica di quel periodo, e quando ne ho scritto, anni dopo, ho solo cercato di esserne all’altezza.

Una cosa che forse non si nota leggendo l’Allegro Leprotto (di per sé non è importante notarla) è che è un libro costruito a coppie, su elementi di varia natura che ritornano due volte o che sono sdoppiati (l’esempio più visibile è senza dubbio l’incontro con Andrea Araos di cui parlavo prima). Senza approfondire un tema per sua natura scivoloso, mi limito a dire che questo è dovuto al fatto che in quegli anni ero sdoppiato io, in molti sensi; gli alter ego animali di alcuni miei libri (Le api migratori, I cani dello Chott el-Jerid e lo stesso Leprotto, che però proprio all’inizio del libro annuncia di voler uscire da quella fase) sono un aspetto di questo stesso fenomeno. Tra questi elementi sdoppiati, uno di quelli per me più importanti è la seconda ripresa di un verso celebre di Sereni che nel finale di questa settima parte appare così: “Non sa più nulla, alza lo sguardo verso l’aria” applicato a una bambina che guardavo giocare (dato reale; era la figlia di uno di quelli che mi avevano invitato a Tripoli). Ebbene, la trasmissione di cui parlavo sopra per me è questo, uno sguardo che si trasmette non guardato; senza alcun dubbio fallimentare in partenza dal punto di vista dei canoni, delle gerarchie e della manualistica, ma per continuare con Sereni “è la mia sola musica”.

Gianluca Garrapa: Leggo in Lettere nere: “e divertitevi, soprattutto, ridendo a crepapelle, sino a tenervi la pancia, sino a pisciarvi addosso” […]: la comicità è un elemento che ritieni indispensabile alla comprensione della dislocazione del male di vivere? il pessimismo comico di chi fa ridere, di chi cade, di chi inciampa. Per Bataille il risibile era l’ignoto, per Deleuze è in rapporto alla legge che agisce l’umorismo, per Ėjzenštejn l’accento comico è tale quando appare il contrasto tra una idea arcaica e una contemporanea, per estensione quando il ricordo riportato nel presente, ci fa apparire ridicola la sua riproposizione, (non sorridiamo forse al pensiero dei nostri atti adolescenti cui attribuivamo una certa sconfinata importanza?) e tante sono le concezioni del comico. Comico e poesia, rispetto al vuoto desiderante della Cosa, sono, a mio parere lo Yin e lo Yang della creazione letteraria e artistica tout court: cosa ne pensi a proposito, della comicità, dico, e del suo possibile legame con la poesia?

Andrea Raos: Se ho ben capito fai riferimento, ancora una volta, al concetto di vuoto. Ecco, io credo che sia necessario, rispetto a quel vuoto – per quanto, come ti dicevo prima, il “vuoto della cultura orientale” è un concetto un po’ generico e abusato – operare attraverso la sublimazione e una sorta di velatura. Cercare dei confini. Se fai coincidere quel tipo di vuoto con una certa poesia, allora la comicità può essere una delle tante forme di velatura di quel vuoto, qualcosa che le conferisce forma. Però, a dire il vero, la comicità non è una delle cose che nella poesia mi entusiasma di più. Trovo sia molto diverso l’uso del comico, e dell’ironia, nella prosa. Nelle mie prose, emergono frammenti di ironia, ma non credo possano essere considerati comici, almeno, non lo sono per me. Poi certo, Le avventure dell’Allegro Leprotto e altre storie inospitali è un titolo che vorrebbe anche far ridere, ma non sono sicuro che abbia funzionato…

Gianluca Garrapa: Hai tradotto Charles Reznikoff: com’è tradurre da una lingua all’altra e la lingua straniera è pure la propria, e quella dell’altro, “mi resta una poesia tua che nessun altro leggerà mai la leggo in una lingua straniera che è la tua”, c’è pure il mondo percepito, e nell’Allegro Leprotto e nelle Lettere nere, ci sono le tracce stranianti e straniere del passaggio e del paesaggio, “segni criptati sulla sabbia, destinati ad eccitare la fantasia dei bambini che potrebbero passare giocando su questa spiaggia” (Lettere nere), e sempre in Lettere nere: “ho infranto ormai la barriera fra coscienza e il sogno e l’allucinazione”; d’altra parte la speranza del Prologo. Luna in cielo (Le avventure dell’Allegro Leprotto): “Io spero che ti scardini la vita”, è soddisfatta e tutto il testo si forma per attrazioni e montaggi, estasi e differenziali, linee sorgive, sguardi stranianti stranieri, come i granchi del finale di scrittura di Lettere nere, quei micromovimenti “pronti a cambiare luogo e aspetto al mio restare” (al nostro leggere e intendere la scrittura). Tornando alla domanda: com’è tradurre, in senso lato, da ogni lingua, persino dalla propria, la propria lalangue, nella lingua visiva del lettore?

Andrea Raos: Quei granchietti si chiamano shiomaneki. Ero in viaggio in alcune isole a sud di Okinawa; una mattina mi svegliai molto presto (come faccio quasi sempre), scesi alla spiaggia con il sole che cominciava appena a spuntare sul Pacifico e vidi che la sabbia si muoveva sotto i miei passi come se da me si irradiassero onde. Ci misi un po’ a capire che erano questi granchietti che si spostavano al mio arrivo, a stuoli e sciami; e si creò questa danza reciproca, un moto di vortici quasi immobili che ridisegnava costantemente nuovo lo spazio. Scusa se mi lascio trasportare e mi ripeto. Ma il fatto è che vorrei essere lì in questo momento, di fronte a una scena che non mi dispiacerebbe passare quanto mi resta della vita a scrivere, ovvero a tradurre.

Gianluca Garrapa: “Più reali il vuoto e il vento”, leggo nell’Allegro Leprotto, e “questo mancamento che chiamiamo amore” nelle Lettere nere: la mancanza a essere, quella porzione di vita rispetto cui siamo ormai degli estranei totali, e l’amore, questa forma di atto mancato… Si scrive, perché? per automatismo, per autocomprensione, per amore, per vendetta?

Andrea Raos: [Per gli stessi motivi per cui si legge, credo. E sarebbe bello se ciascuno rispondesse da sé e per sé.] Questa la puoi togliere, se vuoi. Scusa ma la domanda mi mette davvero in crisi.

Gianluca Garrapa: A cosa ti stai assentando ora?

Andrea Raos: Nell’ordine (si fa per dire):

Verso fine 2018 ho tradotto Dieci miliardi di giorni e cento miliardi di notti, un manga di fantascienza disegnato da Hagio Moto e sceneggiato da Mitsuse Ryū che è anche l’autore del romanzo da cui è tratto. Una smisurata space opera di impianto (all’incirca) buddhista in cui il cattivo è Gesù Cristo… Spero che trovi un editore un giorno o l’altro; non sono un esperto di marketing e spero di non diventarlo mai, ma resto convinto che sarebbe interessante farlo uscire in Italia.

Ho inedita anche la traduzione di una favola del 1922 di Ogawa Mimei (una specie di Andersen giapponese, diciamo) che si intitola Le candele rosse e la sirena e che ho scoperto illustrata da Sakai Komako, una grandissima artista che ti consiglio di conoscere (altri suoi libri sono tradotti in italiano). L’ho proposta a un paio di case editrici ma senza successo perché da un lato “non facciamo libri per bambini” e dall’altro “è troppo triste per i nostri lettori”. Insomma ho capito di avere tradotto un libro che è, in Italia, troppo adulto per i bambini e troppo bambino per gli adulti. Questo è interessante, non trovi? Soprattutto se pensi che in Giappone si legge molto più che in Italia. Ci lamentiamo del “monolinguismo” della poesia italiana contemporanea, ma è un fenomeno fatto di barriere e di scatole rigide che si incontra letteralmente dovunque ci si volti.

Con il poeta Éric Suchère abbiamo da poco concluso la traduzione francese delle poesie complete di Giuliano Mesa, il volume edito dalla Camera Verde di Roma. Avevamo pubblicato nel 2010, accelerando i tempi di stampa affinché Giuliano facesse in tempo a vedere il libro, i Quattro quaderni, e tra il 2019 e il 2020 abbiamo fatto il resto. Non so se faccio bene a scrivere questo in pubblico perché non abbiamo ancora affrontato la questione dei diritti, ma è solo perché non abbiamo ancora trovato un editore – la pandemia ha scombinato un po’ tutto. In ogni caso mi ha permesso di capire una volta di più la sua grandezza di poeta, e questo fa sempre bene.

Il compositore Massimiliano Viel sta lavorando a un remake (o meglio, dice lui, una versione redux) del Pierrot lunaire di Schönberg e mi ha chiesto di preparargli i testi italiani, che ho tradotto dall’originale francese di Albert Giraud. Non so cosa ne nascerà ma mi sono molto divertito a lavorare su queste poesie che sono in pratica delle gag macabre, venate di un umorismo da ragazzino dark che mi ha fatto pensare allo Zio Tibia, per chi se lo ricorda: fumetti horror che leggevo da bambino spaventandomi a morte e ridendo un sacco.

Fabio Rambelli, uno studioso di religioni del Giappone e suonatore di shō (uno strumento a fiato giapponese che si usa principalmente nella musica gagaku), mi ha chiesto di registrare la mia voce (testi di varia origine e in varie lingue) per inserirla, non so in che modo, nel suo prossimo disco. È un progetto che mi emoziona molto per via del rapporto molto forte che ho con la musica (nonché, pur con tutti i miei limiti, con il pensiero musicale), e spero con tutto il cuore di essere all’altezza.

Più lentamente di quanto vorrei (il tempo e le energie sono quelli che sono) sto traducendo An Enquiry into Wanting (“Indagine sulla mancanza” più o meno e provvisoriamente) di Ghazal Mosadeq, una poetessa iraniana residente a Londra che ho conosciuto tramite amici comuni. Consiste in una lunga serie di domande, una sorta di variazione, o replica in forma di nuove domande, su Sunset Debris – libro di Ron Silliman del 2002 di cui si trova sul sito gammm qualche stralcio tradotto da Gherardo Bortolotti e Michele Zaffarano.

Sto anche traducendo un libro del 1968 di un poeta giapponese che si chiama Irisawa Yasuo, morto nel 2018 e di cui puoi leggere qualcosa nell’antologia di poeti giapponesi uscita da poco nella Bianca Einaudi. La mia del tutto provvisoria traduzione del titolo è Mia Izumo / Miei Feralia. È un testo duplice, insieme poema autobiografico (ma forse è meglio dire psicogeografico) e autocommento sul poema stesso, intessuto di riferimenti classici giapponesi, cinesi e occidentali di ogni tipo. Tradurre questo libro è un lavoro lento e complesso da cui sto imparando moltissimo.

A primavera 2021 uscirà per Benway Series la traduzione italiana, prima mondiale, di Zong! della poetessa canadese M. NourbeSe Philip. È di Renata Morresi (io ho solo dato una piccola mano per la postfazione), che ha fatto un lavoro straordinario nel rendere e ricreare un testo fuori dal comune; la riscrittura e de-scrittura, a partire dai documenti legali, di un episodio orrendo nella storia della tratta degli schiavi avvenuto nel 1781 (il “massacro della Zong”, appunto). Questo libro fa saltare tante barriere sterili fra scrittura di ricerca, storica, “di impegno”, poesia, prosa, documento ecc., vivificandole e risignificandole tutte. Ed è superfluo sottolinearne l’attualità. Non vedo l’ora di vederlo stampato e spero che risuonerà.

E questo è quanto, almeno per ora. Sono tutti sforzi di apertura e nient’altro, con poco o nullo interesse in termini di “carriera” personale ma di cui permango convinto che abbiamo in quanto società un enorme bisogno.

Infine, il poeta francese Jean-Jacques Viton un giorno mi disse: “Non parlare mai della poesia che stai scrivendo, perché descrivendola la distruggi”. E quindi mi fermo qui, anche e soprattutto per rispetto a lui che ne merita moltissimo.

Grazie, Gianluca.

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