Le fedeltà invisibili è un romanzo della francese Delphine de Vigan e il primo pubblicato da Einaudi nella traduzione di Margherita Botto. Tutto sommato non è la storia che ci sconvolge: di Théo e Mathis, due adolescenti problematici e sensibili, e non sappiamo se la problematicità stia proprio in questa loro profonda autoconsapevolezza del mondo e di sé stessi; non è il fatto che entrambi siano figli di famiglie il cui equilibrio si sta sfasciando, come nel caso di Mathis, figlio di Cécile: mi sono versata una bella dose di whisky in un bicchiere vuoto e l’ho bevuta tutta d’un fiato, o è già precipitato nel punto di non ritorno: Théo, suo padre non esiste più. Lei ha smesso di pronunciare il suo nome (lei è la madre), è figlio di una coppia divorziata che si fa la guerra. Non è il cosa, ma il come. Si vorrebbe dire, non il prodotto ma il processo che ha condotto la scrittrice a contornare quel vuoto esistenziale cui si aggrappano le figure di questo romanzo. L’insegnante Hélène è quasi il nocchiero tra l’adolescenza convulsa dei suoi ragazzi e l’apparente adultità dei genitori. Si porta dentro le ferite di un’infanzia violenta e di un’adolescenza ancor più crudele: ho quattordici anni, quando torna mia madre giaccio a terra, forse ho perso i sensi, per qualche secondo o qualche minuto. Quando mi alzo in piedi mi cola sangue fra le gambe, un serpente scarlatto si insinua lungo il polpaccio e cerca rifugio nei calzini. Mia madre mi chiede se ho le mestruazioni, rispondo di no, eppure non vive di proiezioni, anzi! La sua è una lunga disperata risposta alla domanda d’amore dei due adolescenti che però incespica nel narcisismo dei genitori, nel loro trauma non simbolizzato: sono le leggi dell’infanzia che dormono dentro il nostro corpo, i valori per cui lottiamo, i fondamenti che ci permettono di resistere, i principî indecifrabili che ci tormentano e ci imprigionano. Le nostre ali e le nostre catene. Quattro destini che ruotano attorno al godimento come soccorso dell’altro, e salvarsi, chiedere aiuto, elemosinare amore. Ma, si diceva, le tematiche legate all’adolescenza irrequieta, all’adultità non compiuta, alla zavorra psicolabile del passato, non sono lo scandalo del libro, è la costruzione caratteristica della trama che è parte del narrato. Checché se ne dica, forma è sostanza ma non c’è forma senza sostanza. E insomma, la disposizione dei capitoli: ogni capitolo porta il nome di uno dei protagonisti, ogni capitolo è un punto di vista: ma gli adulti, Hélène e Cécile, narrano in prima persona, e gli adolescenti, Théo e Mathis, sono narrati in terza persona: se in corridoio non c’è nessuno si intrufoleranno nel loro nascondiglio a bere il rum che hanno comprato ieri. Lì per lì ci si chiede per quale motivo un adolescente non debba prendere parola: è un minore, o forse è questione di linguaggio, di stile, magari la scrittrice avrebbe dovuto, qualora avesse usato la prima persona per i due maschietti, avrebbe dovuto cambiare corpo, sesso, età. E però, nonostante la terza persona, la visuale dei due ragazzini non è minimamente offuscata dal pregiudizio adultocentrico, questa è la capacità straordinaria di de Vigan: raccontare senza interferire col proprio istintivo point de vue, che avrebbe rischiato di far prendere al libro una bieca e retorica deriva sociologica pseudo-educativa. Capitoli alternati, antichi ricordi del Mentre Morivo di Faulkner, e è in effetti un lungo malinconico viaggio, cristallino, e dello, a tratti, straniamento delle voci narranti della Trilogia della Città di K. di Kristof.
Non è un romanzo lungo, si legge in un paio d’ore. Andrebbe fatto leggere a scuola, per dire. Non è un romanzo semplice, ma lineare, sì, nulla di sperimentale. Comunica, trasla l’individuo, la solitudine epocale, su un piano simbolico, emancipa il godimento dall’atto distruttivo e colloca in piena luce quella lince furbesca che è il desiderio, e che a saperla domare, concede, come no!, la via d’uscita. Un romanzo del quale, in futuro, potrei dire: sembrava brillare di luce propria.
Buona lettura!