È un giorno di marzo del 1953 quando lo portano a Rio de Jainero per un provino col Botafogo. Ha fortuna, è inserito tra le riserve contro i titolari, gli dicono di giocare ala destra marcato dal più grande terzino dell’epoca, Nílton Santos. Non pare un giocatore credibile, nessuno dello staff tecnico che siede in tribuna ci fa caso. È basso, per via della poliomielite contratta da bambino ha la spina dorsale deformata, fuori asse il bacino, una gamba sei centimetri più lunga dell’altra, testa abnorme. Nessuno metterebbe un’opzione su un accrocco che soffre a tenersi eretto al suo ingresso in campo. Gli occhi però sono intensi, belli, lo sguardo dolce ma serio, indomito, duro.
Nílton dirà: «Quando lo vidi mi sembrava uno scherzo, con quelle gambe storte, l’andatura da zoppo e il fisico di uno che può fare tante cose nella vita meno una: giocare al calcio. Come gli passano la palla gli vado incontro cercando di portarlo verso il fallo laterale per prendergliela con il sinistro, come facevo sempre. Lui invece mi fa una finta, mi sbilancia e se ne va. Nemmeno il tempo di girarmi per riprenderlo e ha già crossato. La seconda volta mi fa passare la palla in mezzo alle gambe e io lo fermo con un braccio e gli dico: “senti, ragazzino, certe cose con me non farle più”. La terza volta mi fa un pallonetto e sento ridere i pochi che assistono all’allenamento. Mi arrabbio, quando mi si presenta di fronte cerco di sgambettarlo, ma non riesco a prenderlo. Alla fine vado dai dirigenti del Botafogo e dico: “tesseratelo subito, questo è un fenomeno”».
La dirigenza non perde tempo: acquista Garrincha dal Serrano di Petrópolis per cinquecento cruzeiros, la somma più bassa mai pagata nella storia del calcio professionistico.
Manoel dos Santos deve il suo nome al suo aspetto minuto, per l’assetto in piedi ricurvo, che ricorda un’omonima genia di passeri che male s’adatta in cattività, detta garrincha. Manoel da bambino era abile nel catturarli. La sorella gli affibbiò il nome ridendone ma, dai quattro anni, al fratello rimase attaccato addosso come un presagio e un segno del destino.
Garrincha nacque il 28 ottobre del 1933 a Pau Grande, nel distretto di Magé, quinto figlio di Amaro e Maria Carolina. Il padre discendeva da una tribù di indios dell’Alagoas, la madre mulatta era originaria di Recife, nello Stato di Pernambuco.
Garrincha ebbe un’infanzia di povertà. Il padre lavorava come guardia giurata, era un accanito alcolista; la madre lavorava tutto il giorno. Garrincha visse in uno stato di quasi abbandono, non aveva un paio di scarpe, mangiava quando capitava, cacciava garrincha, andava a pesca, gli piaceva il calcio. Cominciò a bere cachaça e a fumare che non aveva ancora dieci anni. La sua istruzione non andò oltre la terza media. Lo misero a lavoro in una fabbrica appena adolescente, ma era una testa calda, scevra alla disciplina. Oltre calcio e cachaça, anche le donne lo appassionarono da ragazzo.
Nel calcio fu un talento naturale, tanto da essere notato e condotto a Rio de Janeiro, come detto, nel ’53, enfant prodige di quel Botafogo egemone allora in Brasile e fuori. Presto ne diventò la stella polare per antonomasia, Garrincha la magia del dribbling. Un’ascesa, quella sua, inaudita e fulminea che durò un quarto di secolo, l’emblema di un’intera nazione quando debuttò nella seleção brasileira il 18 settembre del 1955, a soli due anni di distanza dal suo primo ingaggio.
Con la maglia oro-verde giocò quarantun partite, il Brasile ne vinse quaranta (perse solo con l’Ungheria nel ’66). Grazie al suo talento straordinario il Brasile conquistò il Campionato Sudamericano del ’59 e due Campionati del mondo, nel ’58 in Svezia e nel ’62 in Cile, vittorie che fecero di Garrincha il più grande attaccante nella storia del calcio assieme a Pelé, almeno sino alla discesa di Maradona, Messi e Ronaldo. José Altafini, sul mondiale svedese, disse anni dopo: «L’ha vinto Garrincha, come quello di quattro anni più tardi in Cile. Tutti dicono Pelé, ma senza Garrincha quel Brasile non sarebbe stato immenso».
Nel ’57 aveva portato a Rio de Janeiro la moglie che nel tempo gli partorì ben otto figlie, ma a Rio aveva un’amante da cui ne ebbe altri due. In una tournée in Svezia col Botafogo mise incinta una svedese. Garrincha era uno così, senza scrupoli, un redivivo Macunaíma. Ebbe altre donne nella vita; tra tutte si conteranno, tra figli riconosciuti, ignoti esclusi, ben quattordici discendenti.
Nella finale del mondiale del ’62, risultò decisivo. Sue prerogative: velocità, la mossa che spiazzava il marcatore, lo scatto bruciante di fianco o in tunnel, il tocco di punta a seguire la sortita verso l’area di rigore, l’ingegno del dribbling stupefacente, la botta secca… Assistette alla partita in Cile anche Elza Soares, cantante ora celebrata ma cresciuta in una favela, sposata a tredici anni con l’uomo che l’aveva stuprata che era pubere e dal quale ebbe sette figli, tre dei quali morti per fame. Vedova, conobbe Garrincha e s’innamorano, lui all’apice della fama col popolo che lo adorava, lei una celebrità quanto lui.
La relazione suscitò uno sconquasso mediatico e una forte indignazione nell’opinione pubblica, perché per Elza Garrincha abbandonò le otto figlie e la moglie Nair.
Queste le parole di Telmo Zanini: «Garrincha […] affondò nell’alcolismo, restò incapace di rapportarsi con ognuno dei quattordici figli che lasciò sparsi per il mondo. Bistrattato dalle compagne, sveniva per le porte delle osteria, dormiva per i marciapiedi, era accolto da omosessuali e sopravviveva solamente grazie ai favori e alla filantropia del potere pubblico».
Insomma, era un dannato. Le sue infedeltà gli costarono una fortuna tra divorzi, riconoscimenti e mantenimenti dei figli. In più era un dilapidatore seriale, il denaro lo interessava solo per gettarlo via.
Nel ’64 ebbe problemi seri con la dittatura che intanto si era instaurata al potere: gli perquisirono l’abitazione dove viveva con Elza, che era un’attivista di sinistra, e una campagna di stampa lo calunniò più del dovuto. Lui si rifugiò nell’alcol; unica consolazione fu il matrimonio con Elza, che durò vent’anni fino al giorno fatidico.
Si susseguirono gli incidenti automobilistici, alcuni dei quali rocamboleschi, gli arresti per guida in stato di ebbrezza, una manna dal cielo per giornali e magazine. Fu condannato per non aver provveduto agli alimenti dell’ex moglie. Evitò il carcere, ma ormai era stato silurato dal mondo del calcio. Il grande campione era finito, il suo nome oscurato.
Gli ingaggi erano sempre più rari e all’inizio degli anni ’70 seguì Elza in una tournée in Italia. Giocò una partita a Sacrofano, per una squadra che divenne in seguito la Lazio.
Tornò in Brasile e, da ubriaco, senza patente, provocò un incidente in cui morì la suocera. Elza non lo perdonò mai.
Tentò il suicidio, continuava a bere, frequentando i postriboli; la morte gli era addosso ma a lui non importava.
Il 20 gennaio del 1983, all’ospedale Alto da Boa Vista sopra Rio de Janeiro, due medici lo trasportarono su una sedia a rotelle al padiglione degli alcolizzati. Garrincha era in stato di incoscienza. Gli somministrarono soluzione glucosata, Griplex, Lasix e vitamina B; lo legarono a letto per sicurezza. Garrincha era completamente solo. Nessuno gli stava accanto, nemmeno Elza. Morì all’alba.
L’autopsia rivelò che cervello, cuore, polmoni, fegato, pancreas, intestino e reni erano stati compromessi dall’assunzione di alcolici per quarant’anni. Ma fu un edema polmonare a toglierlo di mezzo, quando non aveva ancora cinquant’anni. Morì così, senza onore né gloria, in un paese che visse sotto shock la sua scomparsa il giorno dopo, alla notizia. Un senso comune di colpa e vergogna si insinuò nelle coscienze come un veleno contagioso, per averlo calunniato per anni e poi abbandonato.
Al corteo funebre lungo 65 chilometri da Rio de Janeiro sino a Pau Grande una folla sterminata gli rese omaggio in un silenzio attonito. Questa partecipazione sentita e di massa fu il suo ultimo momento di gloria: Garrincha rimpianto dall’intero Brasile in un mare di lacrime.
Marcello Chinca Hosch