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LE MEMORIE DI UN LIBRAIO CHE HA INVENTATO IL NOVECENTO

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Satisfiction pubblica in assoluta anteprima un inedito di George Whitman, mitico fondatore della libreria parigina in lingua inglese “Shakespeare and Company”.
La Shakespeare and Company ha ospitato nei decenni molti scrittori anglosassoni, dai protagonisti della Beat Generation come Burroghs, Corso e Ferlinghetti a Henry Miller e Samuel Beckett. La libreria divenne nel tempo una sorta di rifugio letterario per aspiranti scrittori e nomadi viaggiatori, come celebra il motto della Libreria: “Sii gentile con gli sconosciuti, perché potrebbero essere angeli nascosti” (Yeats).  Proprio per il suo carattere singolare la libreria di Rue de la Bucherie è stata omaggiata anche dal cinema, da Richard Linklater in “Prima dell’alba” e “Prima del tramonto” e oggi da Wody Allen, che ne ha mostrato le celebri vetrine in “Midnight in Paris”. George Whitman aprì la sua libreria nell’agosto del 1951 con il nome “Le Mistral”, in omaggio alla sua fidanzata di allora. “Shakespeare and Company” era il nome invece della libreria in rue de l’Odéon di Sylvia Beach, che chiuse nel 1941 per il rifiuto di vendere l’ultimo esemplare di Finnegans Wake a un ufficiale nazista. Quando Sylvia Beach morì, nel 1962, lasciò in eredità a George Whitman alcune casse di libri, il marchio del negozio e pure il nome per la figlia, che ora ha preso le redini della famosa libreria.  Nell’inedito che Riccardo Antoniani ha offerto a Satisfiction George Whitman ripercorre le origini della leggendaria libreria. Segue all’inedito un commento di Pia Copper.
Marta Dosi
LE MEMORIE DI UN LIBRAIO CHE HA INVENTATO IL NOVECENTO
Quando Frances Steloff era presidente dell’American booksellers association mi confidò che la mia libreria era finita per divenire una sorta di luogo che poteva benissimo essere stato concepito dal genio di uno dei più grandi architetti che ci siano mai stati. Ho dato libero sfogo alla mia immaginazione, con il risultato che passeggiando per le vie di Parigi uno sconosciuto può illudersi
di essersi imbattuto in una delle tante librerie della rive gauche, ma se gli riuscisse di trovare la via nel labirinto di camere ed alcove e salisse le scale che portano alla mia residenza privata, allora potrebbe soffermarvisi e dilettarsi a leggere i libri della mia biblioteca o dare un’occhiata alle fotografie appese nella mia camera.
Aprii la mia libreria nel 1951 e questo quartiere nel cuore di Parigi altro non era che un bassofondo popolato da saltimbanchi, straccivendoli, piccole lavanderie a gettone, alberghi malfamati, osterie, minuscole sartorie e qualche drogheria. Nel 1600 il nostro edificio era parte di un monastero dove un frére lampier accendeva una torcia all’imbrunire. Sembrerebbe che io abbia ereditato il suo ruolo, dal momento che sono stato il vostro frère lampier negli ultimi cinquant’anni.
Quando ripeso al fatto che ormai da cinque decadi sono stato un libraio a Parigi, mi sembra che tutto altro non sia che una farsa senza fine, una commedia dove i Romei e le Giuliette non invecchiano mai mentre io sono diventato un ottuagenario, un Re Lear che sta lentamente perdendo l’ingegno. Ora che sto per entrare nella mia seconda infanzia, mi chiedo se forse non ho che giocato
a fare il bottegaio in uno dei tanti vicoli della storia, allestendo scaffali impolverati con libri obsoleti, mentre i più oramai da un capo all’altro di questo villaggio globale usano l’informatica.
Ciononostante, mi viene in mente qualche buon risultato, comunque tipico della condotta idiosincratica con cui ho gestito questo negozio. Quando un esploratore francese chiamato Michel Peissel visitò la mia libreria gli dissi di aver letto i libri che aveva dedicato ai suoi viaggi nel Quintana Roo e che speravo di incontralo un giorno. Mi confidò allora d’avermi già conosciuto,  quand’era uno studente frequentava il mio negozio e i libri che aveva letto qui l’avevano incoraggiato a diventare un etnologo.  “Ed ora che ho pubblicato diciotto libri” disse “sono ritornato dove tutto è incominciato, nella piccola biblioteca del piano di sopra”. Mi ricordo anche di una ragazzina di dodici anni che incontrai a Boston, sognava di studiare danza in Francia e sono riuscito a pagarle un biglietto d’andata e ritorno per Parigi e ad offrile un posto dove stare per tutta la durata delle vacanze estive. È stata una dei tanti ospiti che ho invitato a soggiornare nella mia casa e a leggere i miei libri, per poter restituire quell’ospitalità che ho ricevuto in diversi paesi durante i miei vagabondaggi.
Mi piace credere che ci sia una traccia di genio in ciascuno di noi e che nel mio caso si tratti di una vaga somiglianza con Walt Whitman, anche lui aveva una libreria e una pressa tipografica, a Brooklyn, più di un secolo fa. Mi sento affine a Whitman e ritengo che la libreria avrebbe gli stessi difetti e le medesime virtù se fosse lui a portarla avanti. È stato detto che forse nessun’uomo come
lui amò così tanto ed ebbe così poche cose in antipatia ed io, dal mio canto, non aspiro che allo stesso modesto traguardo.
Una volta credetti che avrei passato sette anni camminando in giro per il mondo. A piedi, sono andato dal Messico fino a Panama, dove il sentiero finiva prima ancora di arrivare ad un incrocio ferroviario chiamato Choco Colombiano. Ad oggi non mi risulta ancora che ci sia una strada. Forse è giunto il momento di riprendere proprio lì dove mi ero fermato, quando vivevo nei bassifondi di Panama come un senzatetto dei tropici, unico bianco in un quartiere di neri. Forse, come Ambrose Bierce nello Sonora, sparirò anch’io. Ma dopo essermi immerso in ogni sorta d’umanità, è assai difficile riuscire a rassegnarmi, non vedere le centinaia di milioni di ragazzi cinesi con un diploma universitario che salgono finalmente sulla locomotiva della storia; non scoprire che a qualcuno è
finalmente riuscito di risolvere quel rompicapo che non smetteva di sbeffeggiare Einstein nei suoi futili tentativi di incastrare spazio, tempo, gravità e elettromagnetismo in unica equazione di campo; non poter assistere al momento in cui la democrazia scalzerà la plutocrazia del complesso militare- industriale che domina gli Stati Uniti; non esserci qual giorno in cui, come profetizzò Tennyson, “il tamburo da guerra cesserà di battere e gli stendardi da battaglia verranno ripiegati nel parlamento dell’umanità, nella federazione del mondo”.
Me ne andrò senza lasciarmi dietro alcun possedimento terreno, solo un paio di vecchi calzini, delle lettere d’amore, le mie finestre che si affacciano su Notre Dame perché possiate goderne e la mia piccola, sgangherata bottega del cuore il cui motto è “sii sempre ospitale con gli sconosciuti, perché potrebbero essere degli angeli nascosti”. Me ne andrò senza lasciare un recapito, ma sappiate tutti che forse mi sarà dato di continuare il mio vagabondare attorno al mondo insieme a voi.
George Whitman
®Shakespeare and Company, Paris.
GEORGE WHITMAN, IN MEMORIAM di PIA COPPER
Il mondo ha conosciuto pochi uomini come George Whitman. Nello spietato mondo capitalista d’oggi, i suoi ideali e il suo motto “Lunga vita all’umanità” sembrano quasi dei residui del passato. Per tantissime persone, il numero 37 di rue de la Bûcherie a Parigi è stato molto di più di una libreria; è stata una casa per qualche mese, un posto dove sognare, scrivere, trovare l’ispirare
affacciandosi verso a una delle più belle cattedrali del mondo, un luogo che George chiamava il Kilometer Zero, l’indirizzo definitivo.
Migliaia e migliaia di ragazze e ragazzi sulla ventina, provenienti da tutto il mondo, aspiranti artisti o scrittori, hanno mangiato i pancakes di George o il suo gelato alla fragole mentre erano impegnati a diventare la prossima Gertrude Stein, Djuna Barnes, Henry Miller, Ernest Hemingway o James Joyce. Whitman chiedeva a tutti di leggere un libro al giorno e di scrivere il prossimo grande
romanzo su, nell’appartamento al terzo piano. Ognuno doveva redigere la propria biografia, a futura memoria. Poi c’erano gli scrittori. Lawrence Durrell era uno dei migliori amici di George. Richard Wright era un habitué. Henry Miller coniò un nuovo nome per la libreria, la “wonderland of books”. Il suo compagno di battaglia era Lawrence Ferlinghetti: anch’egli giunse a Parigi nel dopoguerra con una piccola somma ricevuta in qualità di ex prigioniero di guerra. Poi se ne andò a San Francisco ad aprire la sua libreria, a pubblicare quei Beats che inatanto scorazzavano tra Big Sur e Parigi (Shakespeare and Co.) passando per Tangeri. Si è sempre vociferato che George fosse un Dongiovanni del retrobottega, intento a sedurre la misteriosa Anaïs Nin. Ma, forse, era un principe Myskin o meglio un Don Chisciotte, come gli piaceva chiamarsi.  Anaïs Nin, poi, lo definì “un santo tra i suoi libri, libri che presta ai suoi amici squattrinati, su al terzo piano, nel suo appartamento alla Utrillo, le fondamenta non troppo solide e le finestre piccole”.
Ho scoperto la Shakespeare and Company un freddo pomeriggio del 1994. Qualcuno mi aveva detto di andare a leggere nella biblioteca al piano di sopra, cosa che feci trascorrendo alcune ore in una camera colma di volumi, talvolta mangiucchiati dalle termiti, ma che avevano tutta l’impressione di essere delle prime edizioni, per giunta autografate. All’improvviso un uomo con il pizzetto apparve dietro i libri, aveva all’incirca settant’anni, vestito di cachemire e velluto, quasi un dandy.
“Cosa fai a Parigi?” mi chiese. “Studio il cinese alla Sorbona” gli dissi. “Sono cresciuto in Cina. Vivevamo in una casa fortificata insieme ai miei genitori che erano dei missionari. Era il tempo in cui detenevano il potere i signori della guerra. Facevamo dei picnic sulle colline nei pressi di Nanjing con Pearl Buck, aveva all’incirca la mia età. Yang Guizi!” gridò “Yang Guizi!” imitando in cinese quello che allora gridavano agli stranieri biondi dal lungo naso occidentale. Gli raccontai che avevo vissuto a Pechino, all’Hotel dell’Amicizia, dove tutti indossavano l’uniforme blu di Mao e che da sempre sognavo di venire a vivere a Parigi per scrivere e organizzare un salotto letterario alla maniera di Madame De Stael. Il giorno dopo ricevetti un messaggio nella mia cassetta delle lettere alla Cité Universitaire: “Shakespeare and Company ha bisogno di te. Vieni alle 20”. Giunto il momento venni accolta da George che mi dette un mozzicone di matita e mi intimò di invitare ogni scrittore che incontravo per invitarlo a soggiornare al terzo piano. Mi sedetti in mezzo a tutti quei libri, con la netta impressione di essere attorniata dalle anime di centinaia di scrittori e che le loro vite giacessero sugli scaffali. Poi arrivò lo sconforto. Non avevo alcun’idea su come si vendessero i libri, a malapena riuscivo a contare in franchi e non avevo la minima idea di dove si trovassero i titoli che i clienti cercavano. Poco importa, capii subito che non era un problema. Da quel momento Parigi sarebbe stata la mia casa. Sono trascorsi diciannove anni e quella ragazza canadese non se ne è mai andata.
Certo, gli anni della boheme sono passati, gli anni in cui George una sera di Natale tirò un pezzo di Roquefort addosso a me, ad un giovane scrittore inglese e ad un produttore di Los Angeles, dicendoci di andarcene fuori a festeggiare il Natale per le strade. Mi ricordo del giorno in cui George annunciò l’arrivo di un “comunista miliardario”, Allen Ginsberg, e me lo presentò. Aveva
appena finito di maneggiare con la sua carta di credito per aprire il “writer studio” – la camera concessa ai soli scrittori – perché George aveva lasciato le chiavi chissà dove. Oppure il giorno in cui giunse Ted Joans, l’unico beat di colore, che venneaccompagnato dalla sua splendida fidanzata etnologa. Joans era venuto come ogni anno a raccogliere fondi per finanziarsi il suo abituale pellegrinaggio a Timbuktou O quando Ferlinghetti, George ed io sedevamo fuori dalla libreria a mangiare le ciliegie appena comprate al vicino mercato di Palce Maubert  e a cantare canzoni degli anni Trenta o declamare poesie con gusto. George me lo ricordo sempre generoso, nel suo “rag-and-bone shop of the heart”, sempre intento a incoraggiare le persone ad essere sempre “ospitali con gli sconosciuti, perché potrebbero essere degli angeli nascosti”. Alla Shakespeare ho stretto alcune delle mie migliori amicizie, certe sono diventate qualcosa di veramente significativo. Dal canto mio, sono diventata un’esperta in arte cinese e ho trascorso ore ed ore a bere tè in atelier senza riscaldamento da Shanghai a Beijing fino a Chongquing. George era sempre lì ad aspettarmi quando tornavo e ogni volta mi diceva “attacchi a lavorare questa sera stessa”,sebbene non ignorasse affatto il mio disappunto. George aveva sempre un libro tra le mani ed era sempre un titolo recente, non ultimo una biografia di Barack Obama. Leggeva sempre, chiacchierava sempre e sempre lo si vedeva a confabulare immerso tra i suoi libri. Quanti amori sono iniziati tra quegli scaffali, quanti libri sono nati tra quelle fila di volumi, quante amicizie sono germinate tra tutte quelle pagine stampate.
Un pomeriggio di qualche giorno fa, i Tumbleweeds (così si chiamano gli ospiti7aspiranti scrittori della Shakespeare) e gli amici della libreria si sono riuniti di sopra al terzo piano, per rievocare le loro esperienze e bere del tè con Sylvia, la figlia di George che da qualche anno ha accolto la sfida e ha ristrutturato la libreria, continuando ad offrire un letto a questi giovani affamati. Ha anche
iniziato un festival letterario e ha mantenuto il tradizionale appuntamento del tè – servito ogni domenica pomeriggio al terzo piano a clienti ed amici della libreria N.d.T. – e i “poetry readings” del lunedì sera. Sylvia era pallida, con quei suoi capelli biondi che mettevano in risalto i tratti angelici del suo viso. Aveva trascorso le ultime otto settimane insieme al padre, un lungo e
prolungato addio. Ha detto che una statua di Don Chisiotte, l’eroe letterario di George, ne abbellirà la tomba a Pere Lachaise, dove sarà in buona compagnia insieme a Balzac, Wilde, Apollinaire, Morrison e tanti altri. Abbiamo pianto un poco. E un poco abbiamo riso. Raccontandoci a vicenda del tempo passato in quel negozio, del suo vecchio proprietario, la sua eredità. Abbiamo aspettato insieme che George lasciasse la libreria, tenendoci stretti tra di noi, riscaldandoci con un sorso di vino. Quando le campane di Notre Dame hanno rintoccato sette volte, George se n’è andato per sempre dalla sua Shakespeare and Company, verso altri orizzonti. Rimane lo spirito del luogo. La sua poesia, l’atmosfera del passato, l’entusiasmo e il dolce sognare della Lost Generation dove e quando potremo sempre essere Zelda o Djuna o Gertrude o Henry. E Parigi sarà sempre il nostro posto, un grande teatro della vita.  Come ha detto Hadrian Hornsby – ex-commesso libraio alla S&C che ora lavora a Londra come drammaturgo N.d.T. –  non appena ricevuta la triste notizia: “Cala il sipario su uno spettacolo immenso ed umano. Non avremo più l’occasione di assistervi. Ma siamo assai più ricchi per averlo visto anche solo per una volta. World, throw your roses!”.
® Pia Copper Ind

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