Lei è una riconosciuta giornalista culturale, molto seguita sui social e sulle pagine cartacee per cui scrive, e trova (nel caos del vivere contemporaneo) anche il tempo di curare libri di un ben definito spessore narrativo: quanto ha impiegato, in tutti questi anni, per diventare l’agitatrice (e aggregatrice) culturale che oggi è?
Ho iniziato a lavorare abbastanza presto come giornalista, prima della laurea, nel settore della cultura e degli spettacoli, in particolare mi occupavo di teatro. Direi che ho fatto una lunga gavetta, senza saltare passaggi. Ma poi sono stata fortunata perché lavorare al Corriere della Sera nella redazione napoletana non era un obiettivo nemmeno pensabile all’inizio. E il giornalismo al Sud non offre tanti sbocchi, ancora oggi.
Quali sono gli autori classici da cui non vorrebbe mai separarsi? Quali gli autori contemporanei viventi con cui più è in sintonia?
Il pensiero di Fabrizia Ramondino è ancora molto vivo, del resto sono passati solo quindici anni dalla sua morte. Quindi numerose suggestioni e intuizioni della scrittrice sono quanto mai attuali, per esempio sulla guerra, sul pacifismo, sulle donne e sulle forme ibride di scrittura, tra letteratura e autofiction. Eppure, il tempo che ci separa da lei ci ha spinto in maniera decisa in direzione di una pericolosa deriva individualistica, quindi spesso le sue parole – come quelle di altri grandi autori – sono una vera e propria bussola nel tempo presente.
Con il suo pensare – nei laboratori universitari che conduce, ma anche per gli editori con cui ha lavorato – ha indagato anche le suggestioni politiche (e letterarie) che appartengono ad autori immortali della grande letteratura italiana. Per citare una sua curatela recente basta citare “Modi per sopravvivere. Scritti politici 1973 – 2008” di Fabrizia Ramondino, E/O 2023; in ragione di quest’ultimo lavoro le domando: quali sono le suggestioni che da addetta ai lavori, e da lettrice, ha ritrovato in questa protagonista della letteratura italiana?
Una domanda difficile, come si fa a nominare un classico ed escludere tanti altri? Le letture di formazione sono naturalmente quelle di tutti noi, almeno se parliamo di classici moderni: Mann, Proust, i russi… se dovessi proprio scegliere il libro da portarmi sull’isola deserta forse sceglierei la Recherche e Viaggio al termine della notte. Ma anche la Cognizione del dolore di Gadda, che poi è un punto di riferimento ramondiniano. E il Trentesimo anno di Ingeborg Bachmann. Tra i viventi italiani amo molto Michele Mari e Antonio Franchini; tra gli stranieri mi piace Amitav Gosh per la sua saga storica ma anche per l’impegno ecologista. E leggo molti gli americani. Inoltre, non sono più viventi, ma metterei nell’elenco dei contemporanei anche Saramago, in particolare L’anno della morte di Ricardo Reis, e David Foster Wallace, innovatore assoluto. Poi ci sono autori interessanti, da altre latitudini, come Teju Cole o Chimamanda Ngozi Adichie che aprono nuove prospettive.
Che rapporto ha con il cinema, le serie tv e i fumetti? Quali sono i suoi autori preferiti di questi tre medium narrativi?
Il cinema è stato uno dei miei amori, ne scrivevo per il manifesto prima di lavorare al Corriere, collaboravo con Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri, oggi lo seguo un po’ meno, ma ci sono tanti bravissimi autori. Per restare nella mia città, Napoli, c’è il grandissimo Antonio Capuano che ora tanti stanno scoprendo come maestro di Paolo Sorrentino ma che io ammiro da sempre. Poi sono affascinata dal cinema orientale, coreano per esempio. E coreana è pure la serie Squid Games che nella sua ottusa crudeltà racconta bene il presente. Come serie americane, mi sono piaciute molto Mad Men e Succession. E come serie napoletana, mi è piaciuta la controversa Mare Fuori, meglio la prima stagione delle altre. Fumetto ne leggo poco, eppure ho lavorato anche in una scuola di Comix. Butto un’occhiata a quelli di mio figlio, Sio mi fa ridere, mentre non mi sono mai appassionata ai manga, nemmeno quando lui impazziva per Attack on Titans.
Ogni giornalista sensibile immagina un lettore ideale. O forse no. Per lei esiste quel lettore? Se sì, le andrebbe di raccontarci come si muove nel mondo, cosa legge, cosa fa per sfuggire al tempo ultraveloce della vita contemporanea?
Il lettore ideale? Non ci ho mai pensato, in realtà penso ai lettori concreti che mi capita di incontrare e che ti possono criticare o apprezzare ma che sono comunque necessari a sentire la funzione, lo scopo del tuo lavoro e a farti capire che non giri a vuoto, per così dire. Più che per lo scrittore, il contatto con il lettore è necessario e utile al giornalista che deve calibrare ogni giorno la sua attività sulla realtà che gli sta intorno.
Come impiega il tempo quotidiano dedicato alla scrittura dei suoi articoli e alle ricerche utili per i suoi libri?
Il giornalismo è un mestiere che si impara con la pratica, si acquistano velocità e intuito. La routine è quella della lettura dei giornali, una scorsa ai social, le telefonate ai collaboratori, alle possibili fonti. Le mie letture seguono il ritmo della rubrica di recensioni che tengo sul Corriere, ma cerco di conservare il tempo per poter leggere anche altro, non solo i libri di cui devo occuparmi per lavoro. Se poi sto lavorando su qualcosa di specifico, mi ritaglio il tempo, soprattutto la mattina, per andare a seguire le tracce che mi interessano. Per la Ramondino è stato bellissimo ricalcare le orme dei suoi passi sui suoi luoghi, incontrare le persone che la conoscevano…
Quale tipo di storia, rubata al mondo reale, non scriverebbe mai?
Non scriverei di gossip, capisco che è un genere che tira molto ma non riesce ad appassionarmi. O meglio, per scriverne ci vuole una penna raffinatissima. Chessò, un Arbasino magari. E allora diventa grande letteratura. Io non ne sarei capace.
In fondo, alla fine della corsa del vivere quotidiano, lei perché legge (e scrive) ancora storie?
Una domanda difficilissima!!! Le storie sono sempre esistite, dagli uomini delle caverne fino ai videogiochi di oggi che hanno una forte componente narrativa. Come possiamo pensare a un mondo senza storie? Anzi, forse nei giornali oggi ci sono fin troppe storie. Preferirei più inchieste, per esempio.
Insegna giornalismo: cosa si guadagna (e cosa si perde) sul piano umano e professionale svolgendo una docenza tanto complessa?
Ho insegnato giornalismo, ora è da un po’ che non lo faccio. L’insegnamento è uno dei lavori più difficili e più belli che esistano, per il quale è necessaria una forte vocazione. Per il giornalismo è un discorso particolare: le generazioni precedenti alla mia erano convinte che il mestiere si ruba in redazione e non si insegna a scuola e questo ha un suo fondamento. Ma nelle scuole possono nascere relazioni, si creano contatti, ci si confronta senza l’ansia dell’attività redazionale. E quindi hanno una loro utilità e anche fascino.
Le andrebbe di raccontarci come parlerebbe a un bambino del futuro della Napoli invasa dal colera negli anni 70 del novecento?
Durante il colera ero molto piccola, magari potrei spiegare a un bambino quanto è stato duro il tempo della pandemia, come abbiamo vissuto la paura collettiva e individuale e quanto ci siamo sentiti esposti e precari. È stato un evento imprevedibile, ricordo che all’inizio scherzavamo con gli amici sulle notizie riguardanti lo strano morbo cinese… è stato uno spartiacque, ma non ne siamo usciti migliori.