È tempo di ritorni, di rovesci e fortunali, il declinare dell’estate che si allunga e si rompe negli scrosci.
È tempo per Herr Soerensen di tornare in Norvegia, di lasciarsi alle spalle la carriera al Teatro Reale di Copenhagen e di ritirarsi tra i fiordi con la sua compagnia di repertorio, tra i paesi di pescatori e i grandi alberi di una terra che gli parla di Shakespeare e delle saghe eroiche dell’arte.
È tempo per Karen Blixen di affidare le sue storie alle mani di Clara Svendsen, la sua segretaria, dettandogliele dal letto della casa che dava sulla Strandvej ammutolita dalla neve, la strada ventosa e panoramica su cui sorgeva la proprietà acquistata dal padre nel 1879 e dove nacque lei nel 1885, figlia “meticcia” di due culture e di due modi diversi di intendere la vita, quello aristocratico del padre tanto amato e morto suicida quando lei aveva dieci anni, e quello della famiglia della madre, i Westenholz, più concreto, borghese, e moralista.
Karen Blixen, o Isak Dinesen, o Tanne, o Tania (ognuno scelga come chiamarla a seconda della confidenza che crede di possedere con lei) ogni volta che si allontanava da Rungstedlund, e poi vi tornava, ricadeva in una depressione fonda che nel febbraio del 1958 la fece mettere a letto con l’ansia del futuro e l’unica preoccupazione di superare i trentacinque chili di peso; era la stessa donna che, da ragazzina, gettava il suo pranzo dal finestrino del treno che la portava a Copenhagen e, tornata a casa, non voleva cenare accampando la scusa di aver mangiato troppo: un gesto eroico, l’inedia, con cui opponeva leggerezza alla solidità dei Westenholz. Confessò alla sorella nel 1928: “Man mano che passano gli anni, si impara a riconoscere i fenomeni marginali della vita, necessari comunque ad essere se stessi. Io so, ad esempio, che non devo ingrassare; è meglio che io soffra i morsi della fame, perché essere sovrappeso ‘m’impedisce di fare a modo mio!'”
Nel febbraio del 1958, però, la vita era stata spesa, archiviata l’Africa e la sua piantagione, consumati gli amori, i libri scritti e il successo ottenuto. Ma questo racconto, Tempeste, che lei, debolissima, dettava a Clara (contenuto nella raccolta Capricci del destino), condensa la sua vita e la illumina, ce ne rende il senso e l’ideale, la riepiloga nel suo eroismo e nella tragicità, e ci dice di una scelta che non poteva essere aggirata.
Herr Soerensen, il protagonista del racconto insieme a Malli, desidera mettere in scena La tempesta shakesperiana riservandosi la parte di Prospero; ma non sa a chi affidare quella di Ariel, lo spirito etereo per eccellenza. È così che un giorno, guardando la nuova arrivata, la giovane e impacciata Malli, si convince che lei sia l’incarnazione migliore della poesia di Shakespeare. Malli è figlia di una modista di un piccolo villaggio che, in giovinezza, ha sposato il capitano Ross, uno scozzese fascinoso che l’ha abbandonata subito dopo il matrimonio promettendo di tornare presto e lasciandole in dono una borsa di monete d’oro puro. Madre e figlia trascorrono la vita unite nel culto e nella difesa del capitano contro le malignità del paese che sussurra che Ross è un mascalzone. Ma quando Malli assiste a una replica della compagnia capisce immediatamente di avere incontrato il suo destino. Lo scontro che ne nasce con la madre è duro, e può ricordare quello avuto da Karen con la sua di madre, Ingeborg, che si era tenacemente opposta al suo matrimonio con Bror Blixen. Proprio quelle scenate fecero probabilmente da modello a quelle del racconto.
Ma fin qui la tempesta non si è ancora scatenata. Lo fa sul mare dove coglie la compagnia alla vigilia del debutto della commedia. È da questo momento, tra i flutti irosi e le sferzate secche del vento, che ha inizio per Malli il percorso che la porterà alla scelta più ardua: quella dell’arte. Dapprincipio il dubbio se seguire l’amore o l’ideale, se impersonare Miranda o Ariel, e poi il finale che ci restituisce il credo della scrittrice. Se un tempo, troppo frettolosamente, aveva detto a Mario Krohn, suo spasimante e critico d’arte che le aveva procurato la prima pubblicazione sotto lo pseudonimo Osceola: “l’ultima cosa che voglio nella vita è di diventare una scrittrice; voglio viaggiare, ballare, vivere, dipingere”, quella stessa vita, coraggiosamente vissuta, l’aveva messa di fronte alla responsabilità nei confronti del suo talento di narratrice, una narratrice dallo sguardo limpido che sorvola gli altipiani del sentimento, come aveva imparato a fare quando era salita sull’aeroplano di Denys Finch Hatton che le aveva procurato il brivido di ammirare l’Africa dall’alto e la tragedia di perderlo – perché su quello stesso aereo lui morì.
“Davvero il volo s’addice a Denys. Ho sempre sentito che c’era in lui un grande elemento d’aria… che era una sorta di Ariel. Ma vi è sempre una certa dose di crudeltà in quel temperamento… Ariel era infatti piuttosto crudele, come si può vedere rileggendo La tempesta, ma era così puro, se paragonato agli altri esseri dell’isola, così chiaro, onesto, privo di riserve, trasparente- come l’aria, in breve. Credo anche che ciò che più amai in Denys sin dal principio fu che si muoveva, spiritualmente, in tre dimensioni”. (K. Blixen, Lettere dall’Africa. 1914-1931, Adelphi)
In questo racconto, e con la mediazione di Shakespeare- la cui scoperta, per lei quindicenne, fu uno degli avvenimenti più importanti della vita-, Karen Blixen può liberamente svolgere la tela del fato, la vera sofferenza dell’uomo, che deve farsene carico stoicamente e nobilmente. La nobiltà, per lei, è quella del padre che le ha insegnato che, al di fuori del mondo delle donne, ci sono le aperture del paesaggio, la vita libera, domestica e indomabile, la natura che funge da amplificatore a un sentire inquieto e grandioso. Karen Blixen sentì sempre di dovere qualcosa a quel padre che per tutta l’esistenza le era mancato. Lo idealizzò qui, lo trasformò in materia artistica, in spirito. Le tempeste l’avevano sbattuta ma lei resisteva, salda, al timone della sua fantasia.
Karen Blixen, Tempeste, in Capricci del destino, Feltrinelli, 2000, pp. 202.