Crum non è un luogo di fantasia, esiste per davvero. Lee Maynard ci è nato e vissuto prima di fuggire via come il giovane protagonista della sua trilogia, che si conclude con I Reietti, nel 2012. In Italia The Scummers è arrivato ventidue anni dopo con Mattioli 1885 e la traduzione di Nicola Manuppelli. Poco più di duecento abitanti, una scuola, una chiesa, “l’emporio di Clyde”, una strada non asfaltata, niente illuminazione pubblica né rete fognaria, Crum è situata proprio sul confine tra il West Virginia e il Kentucky, “in fondo alle viscere degli Appalachi”. Quando Maynard pubblica il primo capitolo della saga di Jesse Stone, molti dei suoi connazionali si indignano per la ferocia con la quale l’autore ha descritto quello “stagno luccicante di tetti di lamiera” e per la prosa così inutilmente volgare. L’onda della Cancel culture è ancora lontana da venire, eppure il libro viene bandito. “La vita a Crum era gaia, un folle vortice di ignoranza abietta, emozioni che tracimavano emozioni, sesso che tracimava amore, e talvolta un po’ di sangue a ricoprire il tutto” scrive Maynard all’inizio di questa lunga storia, senza immaginare che con Crum Jesse prima o poi avrebbe fatto i conti. I Reietti racconta l’ultimo tratto di una fuga infinita che porterà questo montanaro ignorante e senza particolari abilità a lasciare la contea del South Carolina, dove aveva osato mischiarsi con un gruppo di neri, per puntare a Ovest, dreaming California.
Il romanzo è scritto come il diario sul quale Jesse, anche voce narrante, appunta le tappe del suo viaggio e i ricordi che lo legano a quel buco di città dove ha lasciato Yvonne, il primo amore, l’unico. Siamo negli anni Cinquanta, l’America sta cambiando (in meglio) e le opportunità non mancano neanche per una testa calda e inconcludente come Mr. Stone. Pagine di corriere sgangherate e di autostop. Jesse si muove da un posto all’altro, da un ranch all’altro. Nella borsa ha sempre qualche libro, malandato, riparato col nastro adesivo “Al ranch avevo letto abbastanza libri per sapere che avevo bisogno di leggere molti più libri”. Si iscrive all’università, alla facoltà Inglese. Non passa di certo inosservato con la sola camicia che ha, bucata sui gomiti, i jeans logori e gli stivali da risuolare. Dura poco. Nel 1960 lo troviamo all’uscita di un bordello, a San Francisco, in compagnia dei suoi nuovi compagni di merende, un messicano e un indiano. Tra sbronze e scazzottate, Jesse rimarrà invischiato in una brutta vicenda giudiziaria. La pena la sconterà nell’Esercito degli Stati Uniti, ultima ma non ultimissima tappa del suo girovagare senza sosta.
I Reietti, come i due libri che lo hanno preceduto, è essenzialmente un romanzo sul disagio: Jesse non ha ancora trovato un posto nel mondo, un posto da chiamare casa. Come Lo straniero di Camus, il personaggio di Maynard sente di non appartenere a niente e a nessuno. La fuga, dagli altri e da sé, è la traccia principale ma non l’unica di questa storia che sembra negare, a Jesse come a chiunque altro, la possibilità di sfuggire al proprio destino, di andare via senza traumi. Lontano da casa non sarai mai te stesso: è questo il messaggio che Maynard lancia al suo lettore. Jesse Stone lo abbiamo già visto nel Sal Paradise di Kerouac e nel John Grady della trilogia del confine di McCarthy. In principio fu Huckleberry Finn, l’archetipo dell’Ulisse americano, l’esploratore, l’inquieto, il ribelle, il sognatore.