È agosto di qualche anno fa e le strade di Roma sembrano aver accumulato il caldo di tutte le estati della storia dell’umanità. Le mie figlie un po’ camminano e un po’ salgono in braccio ed è tutto un sudare e tentare di convincerle che vale la pena guardare, scoprire. La odieranno, penso. Ma no, non la odieranno, è troppo bella…
Entriamo nei palazzi e nei cortili cercando ombra, il fresco delle pietre, dei marmi e troviamo ovunque resti di quel che siamo stati capaci di fare – plurale maiestatis – con il quale ci buttiamo nella mischia quando essere parte dell’umanità ci rende fieri.
Niente invita a camminare per la città con tre bambine se non il fatto che Roma ti fa venire fame agli occhi. Se poi pensi alle mozzarelle in carrozza, ai carciofi ripieni, alla cacio e pepe, viene fame anche alla pancia. Ogni cortile è un rifugio. Entriamo in questo palazzo del quale non ricordo il nome, il suo ingresso si espande in un cortile con giardino pieno di piante e fiori. Mentre tutti si siedono a recuperare le forze, cammino verso un’altro cortile dove c’è un’altra uscita, la prendo e finisco in mezzo a un gruppo di turisti sordo-muti con la loro guida. Non so se escano solo i sordo-muti allegri e quelli tristi restino chiusi in casa, però mi ha sempre colpito la loro estrosità gaudente, scherzosa. Sarà forse il continuo muovere le mani e guardarsi, questo dover guardare accuratamente i gesti, il movimento delle labbra di quelli che parlano, ma qualcosa rende loro sempre attenti e vivi.
Penso questo mentre guardo la guida e poi vedo un anziano della comitiva che si mette di fronte a un busto gigante di pietra che si trova contro il muro e in piedi, nell’incavo della sua incollatura, alza le braccia e ne accarezza il seno come chi nuota a rana. Una scena felice e innocente. Tutti guardano con simpatia l’ anziano che ride perso tra i seni di una madre storica, senza nome, né mancanze, né smancerie. Pura prorompenza lattea, puro nutrire sereno, quasi indifferente. Qualche secondo dopo arriva la consorte e lo prende scherzosamente a borsate ma lui non smette subito, si gusta ancora qualche secondo il suo sogno erotico e materno (aggettivi che possono benissimo andare insieme e ci vanno, per questo in tanti luoghi perbene che non sopportano la vita contrastante, ti invitano a ritirarti con il pargolo ad allattare al bagno).
Nel frattempo, di fianco a me due uomini del gruppo, spettatori della scena, parlano con le mani e con tutto il corpo e io li guardo. Uno di loro racconta all’altro di una donna dalla camminata ancheggiante, fare disinvolto e seno generoso che si era aperta il vestito e, denudando il seno sinistro l’aveva sollevato con una mano e offerto a qualcuno che si era avvicinato, grato, con un bicchiere in mano che lei, strizzandosi, aveva riempito di latte come fosse una fontana per poi allontanare il bicchiere e avvicinare il capo dell’uomo verso di sé, la bocca dell’uomo famelico al suo seno.
L’uomo si volta di colpo e mi sorprende come testimone, facendomi vergognare di averli «ascoltati».
Sono tornata dalla mia famiglia, pensando all’anziano che dissetava la sua gioia tuffandosi in quel petto, ai due uomini e alla scena che uno aveva ricordato, che forse era la scena di un film o di un racconto, o forse un quadro che parlava di misericordia. Immagino che l’uomo del seno possa essere un condannato a morte —lo siamo tutti ma non sappiamo la data — dalla legge o dalla vita, e immagino la donna come una salvezza, una di quelle forme non scontate che sanno prendere gli angeli. Pensa che curioso, la cosa che sembra più morta, più rigida e ferma tra le cose della terra, può accendere fuochi. Quanto Eros può scatenare un pezzo di marmo.
Mercedes Viola