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L’età delle madri” e “Vita degli Anfibi”. Intervista a Vittorio Punzo e Piero Balzoni

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Questa settimana, per Le Tre Domande del Libraio, incontriamo due Autori che hanno trovato la casa per i loro rispettivi romanzi nella Collana Specchi di Alter Ego Edizioni . Si tratta di Vittorio Punzo che ha esordito nel 2022 con il romanzo “L’età delle madri” e di Piero Balzoni che esce in questo febbraio 2023 con “Vita degli Anfibi”. Ricordiamo che la casa editrice Alter Ego è sul mercato editoriale da oltre dieci anni e che la Collana di narrativa Specchi solo dal 2020 ha cominciato a pubblicare, con successo, narrativa straniera. Nei libri pubblicati finora la Collana ha focalizzato per lo più l’attenzione sulla contemporaneità di individui complicati, imprevedibili, pieni
di milioni di sfaccettature e tremendamente fragili, con una particolare attenzione riservata al tema
del “doppio”.

Antonelo Saiz

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Ragazzi, ci volete spiegare, entrando nel dettaglio, il vostro percorso nella scrittura e come siete arrivati poi ad Alter Ego e alla pubblicazione nella Collana Specchi?

Vittorio Punzo
Dopo la recensione di Stefano Bonazzi sono felice di tornare a sedere sul divano Satisfiction, grazie per l’invito. Il mio romanzo nasce quando alla Scuola Holden hanno chiesto di scriverne uno. La prima idea era molto diversa e parlava di un uomo che va a vivere in montagna per fuggire dalla realtà. La storia che racconto ne L’età delle madri è saltata fuori un giorno d’estate, la raccontavo al mio amico Leonardo San Pietro mentre lui preparava una pasta al sugo in un appartamento a metà strada fra Porta Palazzo e Barriera di Milano. Dopo che gli ho presentato il protagonista lui mi ha detto “è questa la tua storia Vitto, è questa!” come David Lynch a Angelo Badalamenti mentre scrivevano la colonna sonora di Twin Peaks. Io ho ascoltato Leo, quindi ho scritto.
Dopo due anni avevo tra le mani duecento pagine di una storia in prima persona presente molto forte, era l’unico romanzo che avevo e l’ho inviato al Premio Calvino, a loro è piaciuto al punto da assegnargli un posto in finale e una menzione speciale della giuria. A quel punto ho conosciuto Alter Ego, Danilo, Luca, Erika, e ho conosciuto Chiara Spaziani che mi ha aiutato nell’editing.

Piero Balzoni
Sono certo che per molti autori sia possibile definire il proprio percorso guardandolo a ritroso, dalla prospettiva del presente. Ci ho provato anch’io e non mi sembra affatto facile, forse perché trovo che il mio, di percorso, sia ancora troppo breve per essere raccontato. Oppure perché non c’è mai stato un vero percorso, al di là dell’abnegazione con cui mi getto a scrivere quando ho finalmente le idee chiare sul design della storia. Per me è stato sempre così. Ricordo bene il momento in cui la scrittura è entrata per la prima volta nella mia vita, a quindici anni. Esiste una data ed esiste anche
un luogo preciso, cioè la stanza in cui dormiva mia madre da ragazza. Ma ho dovuto attendere altri quindici anni prima di dare forma a racconti che mi sembravano degni di una raccolta (Animali migratori, per le edizioni La Gru) e poi al mio esordio (Come uccidere le aragoste, Giulio Perrone Editore). In mezzo ci sono stati concorsi, pubblicazioni su riviste, qualche premio. E diversi anni come script editor e sceneggiatore per la televisione generalista. Dunque posso dire di essermi imbattuto in molti profili differenti – talvolta esageratamente differenti – di scrittura e questo aspetto può aver caratterizzato anche le composizioni di ordine puramente narrativo come Vita degli anfibi. Ecco, questa disomogeneità è forse un tratto che mi definisce e che può aver caratterizzato il mio rapporto con la scrittura. Però se devo pensare a un “percorso” nell’accezione classica del termine, cioè la configurazione di uno spostamento da un punto all’altro, non so
rivedermi. Penso piuttosto alle traiettorie imprevedibili di un pugno di biglie lanciate in aria.

Ci raccontate qualcosa in più su questo libro portandoci nel dietro le quinte, in quella che è stata l’officina di lavorazione intorno alla trama e al linguaggio e che, poi, ha portato ad avere le due voci fresche, coraggiose e facilmente riconoscibili che abbiamo ascoltato?

Vittorio Punzo
Non so, ho imparato che succedono molte cose mentre scrivi un romanzo e bene o male tutte ci finiscono dentro. Ho cambiato tre case mentre la voce del protagonista prendeva forma, ho mangiato tante radici di liquirizia e bevuto caffè mentre stabilivo i confini della trama (forse ho esagerato con una delle due, la trama di questo libro infatti è esplosa in tanti frammenti “ubriachi” il cui ordine e coerenza sono discutibili). I miei capelli continuavano a crescere, sono ritornato in paese – perché a un certo punto le università hanno chiuso – dopo esserne fuggito a diciotto anni, ho rivisto le persone che prima rifiutavo, quelle che mi dicevano qualcosa, quelle che non capivo, mi sono cercato le vicende che in provincia succedono al confine e ne ho raccontate alcune. Succede spesso, mi pare, che dopo un’esperienza in città si guardi con occhi diversi il proprio paese e se ne vogliano raccontare le trame. Il risultato di questa sorta di catarsi l’ho raccolto tramite la voce del protagonista nella seconda parte del romanzo. L’età delle madri è infarcito di un vissuto che, plasmato con la fantasia, segue a ritrarre un paese in una sua intimità. Io, come Domenico nel libro, ho esorcizzato la realtà riversandone una versione pulita nel mondo della finzione.

Piero Balzoni
Ecco, mi interessa ragionare sul concetto di riconoscibile. Non so dire se la mia voce lo sia davvero e se sia stato sempre così. Forse perché se penso ai modelli narrativi del primo e del secondo romanzo non riesco a trovare un tratto dichiaratamente condiviso. Ciò che mi riesce facile negli
esercizi di lettura, l’indagine critica intorno alle evoluzioni degli scrittori, come e perché certi autori restano sempre nei loro territori narrativi, diventa difficile se devo rivolgere l’attenzione su di me.
Anche se ho notato delle somiglianze nel mio metodo di lavoro, cioè nella ricerca continua dell’unità stilistica del testo, e la distanza di almeno tre anni dalla prima all’ultima stesura. Ma si tratta soltanto di dati che non saprei ricollegare tra loro e che non è detto debbano ripresentarsi
uguali nei prossimi lavori, se non per uno spirito di autosuggestione. Detto questo, ho la tendenza a lavorare sul testo sempre allo stesso modo. La prima fase, quella della libertà assoluta, è anche la più delicata. Di solito comincia con una immagine che mi gira per la testa e che quasi sempre è legata a un ricordo rimosso, manipolato o sofisticato dalla realtà circostante. Non mi capita quasi
mai di prendere spunto, che so, da un fatto di cronaca o dalla trama di un film che ho visto. Però spesso è la realtà che attiva questo strano processo di pensiero circolare. Subito dopo inizio a scrivere. E scrivo qualsiasi cosa. Appunti, scene, personaggi, situazioni o semplici monconi di frasi. Oppure soltanto parole in libera associazione, accordi suonati a caso. Sembra semplice, e forse lo è, ma è anche il momento decisivo per il destino del testo. Perché soltanto in questa primissima fase, quando sulla pagina non c’è ancora niente, so che se sarò fortunato verranno fuori gli elementi costitutivi del romanzo o del racconto. Se a distanza di mesi non troverò là in mezzo niente che mi appaia come davvero valido, so per certo che non ne ricaverò nulla di buono nemmeno dopo diversi anni di lavoro. E questa è una grande fortuna che credo di avere: l’intuizione a mollare o ad andare
avanti, e che con ogni probabilità supplisce ad altre mancanze. Come per esempio le difficoltà che incontro nello sviluppo dell’architettura di trama, di una sufficiente ricchezza di plot o del
montaggio di azioni serrate. Invece nei primi mesi sono molto rilassato, mi concedo insomma un giretto intorno ai personaggi, soppeso le opportunità di racconto, individuo qua e là snodi e ipotesi. Questa sfocata forma di malinconia, questo spleen con cui mi accosto al testo, mi accompagna per un po’ e si risolve in due soli modi. Diventa il mio lavoro negli anni successivi, oppure resta nel cassetto. Ma tutto nasce sempre dalla prima immagine che mi arriva all’improvviso e che mi portanel territorio del testo. Oppure da nessuna parte.

Arriviamo alla trama… i nostri lettori di Satisfiction sono abituati in questo spazio settimanale a cercare stimoli e suggestioni capaci di invogliarli alla lettura. Ci esponete al meglio, e fin dove è possibile, la storia che anima ciascuna delle due narrazioni,  soffermandovi su quelli che sono i principali attori che la movimentano?

Vittorio Punzo
Domenico ha sedici anni e, schiavo della propria voluttà infantile, vuole dimostrare di essere un uomo. È convinto che entrare in casa della fidanzata per presentarsi alla madre sia il modo migliore per riuscire nel suo intento. Quando è dentro, conosce una donna quasi coetanea a sua figlia, che fuma molte sigarette e beve vino. Anna è misteriosa, sfrontata, così triste e viva. Domenico ha sedici anni e una predisposizione a donarsi anima e corpo a chi è sul filo del rasoio. Notte e giorno scandiscono i tempi di questa storia, oltre a un conteggio dei giorni che segue la logica di una spirale capovolta perché il racconto di un amore può essere doloroso. Poi le notti si fanno sempre più fitte e buie, Anna riversa il suo passato su Domenico e Maria Vittoria scompare dietro un fantasma.

Piero Balzoni
Come ho detto, il lavoro di partenza è sempre dalle immagini, dunque nel caso di questo romanzo da quella di una bambina che procede aprendosi una strada, un varco attraverso un canneto. La vedo qui adesso così come l’ho vista per la prima volta anni fa, con i suoi barattoli di vetro tenuti insieme dallo spago e le nuvole che si addensano alle sue spalle. Poi segue lo studio dei personaggi, che di solito svolgo valutando caratteristiche relazionali e questioni irrisolte. Immagino come potrebbero entrare in gioco eventi traumatici del passato e quali sarebbero le condizioni migliori per mettere i protagonisti (le protagoniste, in questo caso) sotto pressione. Sono ferite o magari semplici attitudini che però non finiscono mai direttamente tra le pagine. Piuttosto, me ne servo per prendere le misure del conflitto e costruire un plot credibile. In Vita degli anfibi, ad esempio, io non so neppure quale sia il nome della bambina protagonista, ma mi è stato chiaro fin da subito che la pietra angolare dei suoi comportamenti, delle sue credenze sbagliate sul mondo, fosse causa e merito del rapporto con un padre distante. Una figura maschile costruita insomma intorno alla sua assenza e proprio per questo mitizzata. Un mondo che lei potesse tenere sotto controllo, in cui sentirsi sempre a suo agio. Crescere con la certezza di aver avuto un genitore presente e amorevole, anche quando non è stato così, aiuta a proteggersi dagli altri ma è una condizione che inevitabilmente porta a una crisi. Trovo che sia un atteggiamento comune a molti, quello di nascondersi alcune verità, perché ci fa apparire più forti. Eppure non c’è rifugio più pericoloso. Allora ho deciso di prendere quest’uomo, questo padre di famiglia, e farlo semplicemente sparire nel nulla, obbligando madre e figlia a occuparsi delle sue ricerche e quindi affrontando anche il rapporto tra loro due. Togliendolo di mezzo, ho tolto anche la possibilità di un confronto con lui, cristallizzandolo nel tempo. Ora, quel che ho osservato è stato incredibile. Mentre procedevo sulla linea temporale e la bambina protagonista diventava una donna, mi rendevo conto sempre più chiaramente che questa donna somigliava a moltissime persone che ho incontrato nella vita e che pure dicono di aver avuto genitori meravigliosi. È venuto fuori un personaggio pieno di fragilità, con un passato oscuro e originale, ma con dei connotati del tutto credibili. Immagino che molte altre donne, molte altre ragazze che hanno vissuto qualcosa di simile, oggi potrebbero rivedersi in lei.
Almeno in parte.

Buona Lettura, dunque con ” L’età delle madri” e “Vita degli Anfibi” e tutti i libri della Collana Specchi di Alter Ego.

Antonello Saiz

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