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Liberarsi dal superfluo

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Le vecchie case di campagna, oramai in rovina, mi hanno sempre affascinato.

Mi piace interrogare quelle mura sgretolate dal tempo, riconquistate dalla natura, ritinteggiate dal verde rampicante.

Stanze dove ora dimorano alberi, con radici che sconquassano pavimenti che più non sono e in cui la luce piove dentro.

Immagino le vite che furono in quei vani.

Amo pensare allo scoppiettare di un focolare perennemente fumoso.

Di pochi oggetti che arredavano la casa e proprio per questo preziosi.

Case secolari che, forse, non conobbero manco l’elettricità.

Luoghi in cui il calore era il focolare e gli animali da stalla.

Poste a volte distanti dalle comodità e dalla gente, eremi felicemente isolati in un bosco.

Davanti a un rudere, mi piace immaginare la gioia che provò l’uomo che lo costruì, le sue fatiche ripagate.

Costruire la propria casa, pietra su pietra, con travi, sudore, calce e la fatica delle proprie mani. Fantastico!

Cosa pensò, quando la finì e accese per la prima volta il caminetto? Come brillarono i suoi occhi?

Quali furono i pensieri che trovò, pago del calore, con accanto la famiglia, l’amore?

Accarezzo le mura esterne, grezze, costruite come i muri a secco delle fasce che adornano il territorio qui intorno.

Mi piace trovare la bellezza interiore di queste rovine.

Così come della gente, cerco di cogliere sempre il suo intimo migliore.

Pensarne il bene, anche di alcune delle quali parrebbe impossibile e perfino sbagliato.

Pure loro sono case abitate da tanti “io”.

Altresì, cerco nei mie accadimenti, e, nondimeno da quelli più tristi, qualcosa di positivo, un pensiero che mi riscatti.

È incessante, per me, questo lavoro interiore che sfocia nella ricerca della bellezza, ad esempio da oggetti che oramai l’hanno persa.

I giapponesi credo che identifichino ciò nel wabi sabi.

Nell’imperfezione di un oggetto la sua magnificenza.

Una ricerca che parte sempre da dentro noi stessi.

A tal proposito Plotino dice che, qui cito: “dobbiamo lavorare

al nostro interiore, come uno sculture, che toglie, raschia e liscia,

leva il superfluo sino ad ottenere una bella immagine.

Così noi, dobbiamo liberarci dal superfluo, raddrizzare l’obliquo, purificare ciò che è fosco e renderlo brillante, non cessare di scolpire la propria anima sinché non ci si manifesti lo splendore divino delle virtù”. A tal punto Plotino dice che: “se sei diventato ciò (…) se tu sei diventato una luce vera (…) fissa lo sguardo e guarda:

questo soltanto è l’occhio che vede la grande Bellezza”.

Questo leggo di Plotino da un libro di Mancuso “Il bisogno di PENSARE”

L’occhio che vede la grande bellezza”…meraviglioso!

In alcuni componimenti indago la serenità che trovo dentro.

Le poesie che più avanti vi propongo, descrivono momenti vissuti in case fatate che ho brevemente amato, visitato, accarezzato.

In una di quelle dimore di cui narro, là nella bassa bresciana, vi dormii più volte da piccino e l’ho intitola Letargo. Nella sua camera c’era un lettone alto che quasi non arrivavo a coricarmici. Quando d’inverno la stanza era più gelida, sotto le coperte trovavo la “monaca”.

Una struttura di legno, che mi ricordava nella forma una slitta, in essa adagiavano una specie di pentola, naturalmente chiusa, al cui interno era posta la brace ancora ardente. L’insieme infilato nel letto lo riscaldava. Ricordo anche del vasino per la pipì sotto il letto, in ginocchio ci espletavo il mio piccolo bisogno.

Nella seconda abitazione di cui parlo, nel finalese, in località chiamata La Selva, un nome che già la dice lunga, mi soffermai il tempo d’un caffè o poco più, il titolo del componimento Meraviglia. Una casa semplice, la cucina disordinata ma fiabesca, arredata da mobilia antica e fine anni 70, la stufa a legna e profumo di pietanze.

Li, la madre lingua ligure ancora impera.

Fui l’ospite d’onore, e nel servizio migliore sorseggiai un caffè.

Accanto alla stufa stava l’anziana nonna, entrambi le mani sul curvo bastone, col sorriso raccontava di Giuse , mio padre. Divenne il fulcro della conversazione, chiave d’ingresso per l’empatia che si creò, per quella reciproca sincerità che subito avvicina. L’ambiente caldo in tutti i sensi, colmo di sorrisi e bei ricordi.

Nell’ultima poesia, “Un rudere” ci sono io, c’è Plotino, c’è il mio amico Gian Paolo e le profondità che ci accomunano. Da quest’ultima poi, nasce l’idea per un progetto e il suo titolo che chissà…

#

Letargo

Cadevo, nella gelida stanza, tra i sogni.

Una casa sul limitare del paese.

La finestra spalancata, la nebbia nei campi.

Ricordi di bimbo.

Teneri gli zii dalle vite meste.

La stufa da basso, i salami appesi nella cantina.

Umido di brume.

Sotto le lenzuola, immobile guardavo il ramo spoglio; teso, nel silenzio dell’inverno

#

Meraviglia

Una cucina che a dirsi meravigliosa,

non è abbastanza.

Il tepore della ghisa scalda la stanza.

Le ataviche mani che riposano sul bastone e le rughe d’una vita, compongono il momento.

Un caffè, per l’ospite di riguardo, mi onora.

Occhi veri, sorridenti, senza bugie raccontano il reciproco rispetto.

Narrano di vite giuste.

L’aura di mio padre brilla nei ricordi.

Poche parole bastano per avvicinarci.

Dall’uscio la luce chiama lo sguardo

su un mare luccicante, immenso.

Tutto lì pare infinito.

È la dimora del tempo, dove vorresti fermarti.

Respirare profondo, un libro tra le mani e un bicchiere di rosso.

Senti l’eterno, non un rumore al di fuori, solo natura.

Vivo il momento di sella, quello che mai vorresti passasse.

Misto di quiete di serenità, tutto tace.

Pare un’eremo.

Una casa dolce, fatta da mura meste, proprio per questo, interiormente subito mia.

Un posto dove parole liguri ancora regnano, dove abitano cuori.

#

Un rudere

Davanti a una vecchia casa in rovina, medito sulla felicità.

Uno di quei ruderi di campagna, dove neanche più il tetto esiste.

Al cospetto mi chiedo quale fosse l’orgoglio di chi la costruì.

Cosa sentì quando posò la prima pietra.

L’emozione che ebbe allorché vi entrò, il sentimento mentre accese il focolare.

I suoi occhi come brillarono?

In quei sassi, dal verde ora ricoperti, la cerco.

Ecco la meraviglia, saper vedere comunque il bello.

Trovarlo in noi stessi, negli altri, sempre.

Passo la mano su muri eretti come le fasce.

Trovo il ruvido del tempo.

Sorrido, sento l’anima felice.

©️ Schiappapietre Pierluigi

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