Era stato un detenuto inappuntabile, peggio che essere un carcerato deplorevole: lontano da quei giorni di violenza, degeneri come la sua storia ormai priva di qualsiasi frammento di anarchia o di ribellione. Tutte cose inventate, peraltro!
Avrebbe voluto due genitori originali, effettivi, quelli biologici, quelli che ti perdonano tutto, quelli che non abusano delle tue fragilità: due genitori veri per poterli trattare di merda come ogni figlio – sano di mente – dovrebbe fare. Pensava di aver tempo per crescere, per contrastare quell’ingenuità genetica che lo aveva sempre tormentato, e di cui ora si accorgeva con imbarazzo.
Infine, fuori dal carcere: invecchiato dalle botte ma ancora bello, con il fascino di un incidente stradale, senza nessun pregiudizio di sopravvivenza, rigenerato dal tempo coatto, istruito dalle mille letture e mille notti insonni a pensare, serio come una eiaculazione precoce, pronto a un secondo appuntamento con la vita.
Appena varcato il cancello, lo stesso da cui entravano e uscivano i visitatori, Pietro Manforte si accese una sigaretta vecchia di sei anni e si sentì un salmone in cima a quell’incubo liquido che aveva risalito: un salmone controcorrente, anadromo, rosa, argentato, giapponese, rosso, reale, atlantico e persino affumicato.
Ad attenderlo sul marciapiedi, vicino alle aiuole dove pisciano i cani, c’erano: il presidente del Comitato per il diritto al risarcimento di tutti gli assolti, alcuni giornalisti frenetici e freelance, un crocifisso impugnato da un tipo come fosse un’insegna del Mc Donald, altri curiosi e una mosca da scacciare.
Pietro si dichiarò commosso, e ancora una volta innocente. Spiegò di non nutrire rancore verso le istituzioni, che avrebbe comunque preteso un risarcimento per gli anni ingiustamente trascorsi in carcere e chiuse con un patetico e onnicomprensivo “Viva la vita e la libertà!”
Quando entrò a San Vittore aveva vent’anni, nessuna famiglia vera e un’accusa di quelle pesanti: “banda armata”. Ora, a sei anni di distanza, la Corte d’Appello di Milano lo assolveva confermando la sua innocenza e… la sua ingenuità.
Cosa aveva perso?
Sicuramente un cane cieco e diabetico, morto dopo un anno, una fidanzata ormai sposata con qualcuno, uno zio partito per il Venezuela (lo stesso zio che lo aveva cresciuto e stuprato), due yogurt e sei birre nel frigorifero di un amico e forse quell’amico.
Pietro Manforte quella prima notte di libertà andò a dormire alla Casa del Benvenuto dove una suora gli chiese trenta euro per un posto letto.
“Non ho soldi con me.” disse Pietro.
“Questa non mi è nuova!” rispose Suor Maria Favella.
“Non le sto mentendo Signora Suora… Sono appena uscito dal carcere… Ma ero innocente! Mi hanno assolto!”
“Se non puoi pagare, non entri! Poche storie! Ci sono randagi che raccontano meglio di te le proprie disgrazie.”
Pietro non obbiettò, non avendo gli argomenti del buon cristiano che si sarebbe potuto professare l’ultimo degli ultimi o il povero beato oppure il prossimo della suora stessa.
Se ne andò, con un nuovo problema che gli incasinava la vita, camminando lungo la strada, verso un posto che non aveva in mente, con l’intenzione di perdere tempo, spazio e sonno.
Incontrò un signore, uno distinto, con quattro ruote motrici, il marchio Mercedes, un sigaro in bocca e una frenata quindici metri più avanti. Il tipo non spense il motore (e neppure il sigaro) ma gli offrì un passaggio senza distogliersi dal suo atteggiamento da pilota:
“Se vuoi uno strappo, ci sono!”
“Non saprei dove andare!” rispose Pietro con la semplicità di chi ha in mente una branda per riposare.
“Guarda, io abito qui vicino… Andiamo da me!”
“Ah! Grazie. Lei è molto gentile, ma non posso accettare, non mi sembra giusto disturbarla.”
“Disturbarmi? Io pensavo di giocare!”
“La deluderei. Non conosco giochi da tavolo e sono un pessimo giocatore anche con le carte.”
“Intendo dire che vorrei divertirmi con te, magari chiacchieriamo…”
“Eh! Ho capito, ma mi sopravvaluta. Non sono uno che parla molto.”
“Sei molto bello!” concluse il tipo spazientito “Ma la differenza, tra chi è solo bello e chi è bello e intelligente, è che il primo non brandisce la bellezza come un’arma! Sei vulnerabile amico mio. Addio!”
Dopo pochi passi, Pietro attraversò la strada e i suoi pensieri, sulle strisce pedonali, come è giusto fare, per raggiungere l’altro marciapiedi, il parco limitrofo e una panchina dentro quel parco. Lo avvicinò uno spacciatore. O forse era solo un rapinatore, i giornali non lo raccontarono con precisione.
Sebbene un testimone parlò di un’aggressione, di una rissa, di uno scontro e di un coltello, i quotidiani scrissero di un suicidio, di un pentimento e di un rimorso venuto a galla.
Non serve un passato per vivere il presente. Ma chi muore senza nessuno avrà solo un passato, giusto o sbagliato, come ultimo testimone.
Pietro Manforte morì ucciso nel 1996 per mano di uno sconosciuto dopo aver scontato ingiustamente sei anni di detenzione.
Pietro Manforte morì suicida nel 1996 pugnalandosi con un coltello mai trovato a causa del rimorso per una colpa e per un crimine mai provati.