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Licia Giaquinto. Cuori di nebbia

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Un giorno di nebbia, come ce ne sono tanti nella Pianura, un giorno di quelli che Ghirri avrebbe definito colmo di quel “quasi-niente” che ben conoscono gli abitanti di queste terre. Capita a fagiolo questo libro, per me che da anni ci vivo qui, nella “Bassa”, per me che adoro stordirmi e perdermi in mezzo a questo “quasi-niente” che avvolge le giornate, da mattina a sera. Una tenda scolorita e opaca che cade sulle case, sulle terre, sulle persone, ne oscura i contorni, rende tutto della stessa consistenza di cui potrebbero essere fatti i sogni, o gli incubi.

Di questa stessa impalpabile membrana sembra avvolta anche la storia di Licia Giaquinto. Una ragnatela di esistenze dalle poche aspirazioni, sogni abbandonati e routine che ne avvelenano sangue e desideri. Di questa gente si parla, gente comune, gente semplice, persone che potrebbero essere il nostro vicino di casa, oppure noi stessi: c’è Filippo che va in cerca di corpi in vendita, perché quello di sua moglie non gli smuove più niente e poi c’è Natascia, scappata dall’Ucraina, che del suo corpo invece ne ha fatto merce di ricatto fin da giovanissima e oggi vende la sua pelle, i suoi piaceri e le sue menzogne per estorcere, minacciare, arraffare, ancora e ancora. C’è Nicola e il suo vizietto, che osserva tutto di nascosto, accucciato nei fossi, schiacciato lungo i bordi di quelle strade che si perdono nella foschia e che sembrano portare da nessuna parte, Nicola, con gli occhi avidi di corpi estranei e la brina che gli entra nelle ossa. E poi ci sono Francesco e Patrizia, entrambi sopravvissuti, lui da una fame implacabile, lei dall’eroina. Patrizia, il cui corpo martoriato dalle sostanze, pallido e ossuto come quelle cortecce sfregiate che costeggiano gli argini, si trasforma in una “fortezza fatata” per i viaggiatori di quelle terre senza confini.

I protagonisti di Cuori di nebbia sono anime perse che attraversano la campagna, avvolti nelle proprie coperte di disperazioni e fallimenti, mossi da un’ultima scintilla, che sia una pulsione o un’ossessione, poco importa purché sia ancora in grado di scaldarne quelle ossa intirizzite, rancorosi, dimenticati all’interno di una scena desolata dove giacciono immobili fin dalla prima pagina, come in attesa, per poi retrocedere, una rivelazione per volta, fino all’origine dei fatti:

Qualche casolare, fosse ricolme di letame e bidoni di plastica azzurra affiorano, come pustole, sulla crosta gelata. La scena è perfettamente in sintonia con il luogo e la stagione, se non fosse per quei tre corpi, abbandonati come spaventapasseri inutili tra un argine e un solco, a distanza di poche decine di metri l’uno dall’altro.”

Noir corale di corpi che si raccontano come in una seduta spiritica, i protagonisti di questa storia accaduta nei campi lungo la via Emilia si rivelano piano, alternando testimonianze, ricordi, timori. Vicende in apparenza slegate, destinate a intrecciarsi, a collidere per poi disperdersi, di nuovo, in quel “quasi-niente” fatto di casolari illuminati debolmente e TIR che spezzano l’orizzonte spoglio di una terra che da generazioni non smette di suggestionare scrittori, registi, poeti, pittori e che, mai come oggi, sembra godere di nuova, meritata, attenzione.

Licia Giaquinto, in quest’opera, meritatamente riscoperta dopo anni di silenzio, ci pone davanti una manciata di disperati le cui voci spiccano, livide e riconoscibili, attraverso capitoli nominati e numerati ma che potrebbero benissimo farne a meno, in quanto estremamente riconoscibili, grazie a una prosa schietta e realistica, capace di esaltare le personalità e i pensieri di ogni singolo protagonista.

Ci si muove a tentoni, in questa Lost Highway padana che pare infinita, senziente, indispensabile protagonista che si diverte a mescolare le carte. Noi stessi siamo la strada, l’asfalto bagnato, i guardrail sfondati, siamo i cumuli di rifiuti abbandonati, gli occhi che scrutano dai margini. Loro sono le voci che emergono dall’opacità, fantasmi di un luogo sospeso nel tempo. Non ci sono riferimenti, nessuna redenzione, solo un gruppo di voci che emergono poco per volta. Come una fotografia scattata a pellicola, la foschia del ricordo si fa strumento narrativo.

Leggere Cuori di nebbia è come guardare uno di quegli scatti tanto cari a Ghirri. Una sospensione della visione che si lascia contaminare dallo sfocato, dall’imperfezione del mosso e dalla notte, in un crocevia di storie e personaggi le cui debolezze e fragilità sono in grado di mostrarci una dannazione silenziosa, tangibile eppure, come direbbe il buon Celati, «al di là della soglia del mondo».

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Cuori di nebbia

Licia Giaquinto

TerraRossa Edizioni

15,90 euro — 208 pagine

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