Figura di spicco da oltre mezzo secolo nell’ambito dell’editoria musicale italiana, fondatore nel 1977 della storica rivista Il Mucchio Selvaggio e editore di altre gloriose pubblicazioni del settore come Rumore, Chitarre e Outsider, Max Stèfani ha vissuto in prima linea la grande stagione del rock degli anni Sessanta.
Lo abbiamo raggiunto telefonicamente per scambiare quattro chiacchiere a proposito del suo I 4 cavalieri dell’Apocalisse, nel quale racconta l’ascesa e l’epopea dei quattro assi della chitarra Jimmy Page, Eric Clapton, Peter Green e Jeff Beck, oltre a fornire una panoramica organica e fondamentale dell’intera scena del periodo.
Domenico Paris
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Di seguito l’intervista a Max Stefani
L’apparato documentale del quale ti servi in questo libro è incredibilmente corposo. Come ti sei regolato per la ricerca delle fonti (soprattutto dei tantissimi articoli d’epoca) e come ti sei orientato per collazionarle? Quanto tempo ci è voluto?
È stato un lavoro di ricerca, molto duro. Da “topo di biblioteca”, senza voler offendere i bibliotecari, ovviamente. Sono quasi tutte riviste e libri collocati in un certo periodo temporale, a cavallo tra i Sessanta e i Settanta. Per quanto riguarda il materiale ricavato dalla stampa italiana, molte cose le ho raccolte io, mentre altre mi vengono fornite da 4-5 collezionisti che sono possessori di archivi ricchissimi. Per quanto riguarda le fonti provenienti dalla Francia, molte cose le ho io, in quanto sono sempre stato abbonato alle principali riviste transalpine dell’epoca. Per quelle inglesi/americane, oltre a quanto già conservavo io, ho fatto riferimento a dei siti abbastanza completi, alcuni dei quali a pagamento.
L’arco temporale per la stesura di un volume di questo tipo varia dai 2 ai 4-5. Dipende dalla difficoltà dell’argomento e dal tempo che ho a disposizione. Chiaro che con gli “arresti domiciliari” dovuti al Coronavirus, ne ho attualmente molto di più a disposizione.
Più volte all’interno de I 4 cavalieri dell’Apocalisse fai riferimento alla tua presenza a Londra durante il decennio che racconti. Tu che sei stato uno dei pochi testimoni diretti della scena dell’epoca, ci puoi raccontare che atmosfera si respirava davvero e qualche aneddoto stuzzicante?
Beh, era un altro mondo, non trovo definizione migliore. Volendo fare un paragone giusto: l’Inghilterra era a colori quando l’Italia era in bianco e nero.
Lì era tutto divertente e spumeggiante, in continuo movimento, mentre da noi era tutto triste, bigotto e fermo. Sì, proprio un altro pianeta! Quando tornavo a Roma in aereo, passare la dogana era come tornare nel passato.
In terra d’Albione c’era la musica, e che musica!, tanti club a Soho, tutti che si vestivano colorati, le minigonne, le ragazze erano molto più disponibili, ci si divertiva, i sex clubs… e non c’erano in giro preti e monache (e tieni conto che avevo 16 anni)! Aneddoti? Tanti, te ne racconto uno giusto per.
Il mio inglese di allora pessimo. Una delle prima volte che ero andato al famoso live club Marquee, mi ritrovai a parlare con un musicista che aveva appena finito di suonare. E continuavo a dire “guìtar” invece che “guitàr”, sbagliando accento. A un certo punto, si spazientì e mi mandò a quel paese. Era Jimmy Page!
Leggendo la tua storia, si ricorda più di una volta come purtroppo la stampa italiana d’epoca e più in generale la scena musicale nostrana tout court risultasse particolarmente impermeabile alle novità provenienti da oltremanica. A distanza di tutto questo tempo, ti sei fatto un’idea approfondita del perché (sia dal punto di vista giornalistico che ovviamente culturale)?
Io sono sempre stato un anglofilo nella mia vita, per me il rock è anglo-americano. Nell’Impero romano se non eri qualcuno a Roma eri insignificante, anche se eri “qualcuno” in Spagna o in Tunisia. Non contavi un cazzo. Stessa cosa per uno è bravo a calcio alle Isole Tonga, a pallamano in Italia, a rugby in Marocco. Poi oggi se sei bravo, dotato e ti alleni tanto, puoi sempre prendere l’aereo e giocarti le tue carte. Ma con il rock non funziona così. Se non ci sei nato dentro, se non hai il loro (UK-USA) background rimani sempre uno sfigato. Se sei dentro un’enciclopedia rock americana, sei qualcuno; se sei dentro solo a quelle italiane o spagnole o tedesche, non sei nessuno.
Noi abbiamo sempre vissuto in ritardo e malissimo quello che gli altri avevano già passato e goduto, senza mai saper sviluppare nulla di nostro, nulla di autoctono, che avesse un senso a sé stante. Non siamo stati bravi neanche a copiare. Senza contare il problema della lingua: se un italiano canta in inglese, di solito è pietoso! Insomma, del rock noi non abbiamo mai capito niente, figurati allora. Vale ancora di più per i giornalisti che scrivono (o hanno scritto) di rock. Stesso livello d’ignoranza. Un linguaggio a noi alieno e che abbiamo seguito, male, molto da lontano, “fuori dai confini dell’impero”. E, quanto più hai vissuto o toccato con mano la realtà estera, quanto più questa sensazione ti appare reale.
Queste pagine aiutano a ricollocare nella giusta rilevanza storica la figura di Peter Green. Al di là delle sue particolari e a volte sfortunate vicende personali, come mai secondo te questo strabiliante e influentissimo musicista non è stato fatto oggetto fino ad ora di un processo di rivalutazione che ne riporti in auge, anche a livello mainstream, il fondamentale contributo offerto alla storia della musica moderna?
Mah, devo dire che se leggi la critica americana e inglese gli viene da tutti riconosciuta l’importanza determinante che ha avuto nello sviluppo del British-blues dei Sixties. E le sue qualità di chitarrista, molto sensibile, con un tocco quasi magico. E viene ricordato anche per aver scritto qualche pezzo che resta nell’Olimpo, come Oh Well o Black Magic Woman. Pensiamo poi anche al fatto che i Fleetwood Mac nel 1969 hanno venduto più dischi dei Beatles in UK. Certo, sono molto più famosi i Fleetwood Mac della metà anni settanta, visto i 100 milioni di dischi che hanno venduto, però questo dato credo che sia già di per sé molto indicativo, no? Per quanto riguarda Green, il suo album “jamming” The End of the Game non viene molto considerato dai più. In Italia, al contrario. Stranezze…
Dei quattro assi della sei corde di cui racconti, qual è quello che ti è piaciuto di più raccontare e perché?
Credo che Hendrix sia lassù, staccato da tutti. Poi, un gradino sotto, vengono in tanti: Clapton, Green, Page, Beck (ognuno con un approccio e uno stile chitarristico differente), ma anche Gallagher, Garcia, Kaukonen, Duane Allman, Stephen Stills, Steve Ray Vaughan, Jorma Kaukonen. Sono tanti. I miei preferiti, quelli che mi piace di più raccontare, sono Green e Hendrix, comunque.
L’appendice di questa opera, tra foto, curiosità, etc., può essere considerata una sorta di libro nel libro. Come mai hai deciso di utilizzare un “corredo” così importante?
Beh, se è vero che è la sostanza che conta, non l’abito, è anche vero che se fai un “pacchetto” più carino il prodotto funziona meglio, no? Insomma, l’occhio vuole la sua parte. E, in questo caso, mettere anche delle belle foto dei protagonisti l’ho trovato inevitabile.
Nell’ultimo lustro, c’è stato un proliferare incredibile di pubblicazioni non soltanto sulle “divinità” riconosciute del rock, ma anche su interpreti di culto che difficilmente anni fa ti saresti aspettato di trovare sugli scaffali della libreria. Come vedi questo fenomeno? E c’è il lavoro di qualche casa editrice e/o di qualche autore che hai apprezzato particolarmente?
Farei una differenza. I libri scritti da “scrivani” nostrani contano ben poco. Se quei tempi non li hai vissuti, se non hai parlato direttamente con i protagonisti, ti limiti solo a fare un sunto di quello che hai già letto. Tanto è vero che i libri italiani di rock non vengono pubblicati sul mercato anglo-americano. Vengono tradotti tanti volumi, forse troppi per le reali esigenze degli appassionati del nostro paese. E poi se da noi vendi 500 copie è già un bel risultato. Comunque, trovo che la Giunti abbia fatto un bel lavoro.
Quando hai cominciato a scrivere libri e pluri-grafie hai tenuto presente la lezione di qualche “narratore rock” (ovviamente internazionale) o, più in generale, di qualche scrittore? Quali sono le letture privilegiate e le influenze di Max Stefani, se ci sono? E ti piacerebbe un giorno scrivere qualcosa di fiction?
No. Come ti ho detto poco fa, io credo che noi giornalisti italiani sul rock siamo ignoranti. Quindi io non scrivo dei saggi, mi limito a fare dei montaggi d’interviste e di pareri provenienti dalla stampa estera. Magari ci aggiungo solo qualche mio commento. Un “cut’n’mix”, insomma. Credo sia l’unico modo per non scrivere sciocchezze o copiare spudoratamente. Io sono cresciuto con la grande stampa rock francese, Rock & Folk, Best, perché quel fesso di mio padre mi aveva fatto studiare quella lingua invece dell’inglese. Era una stampa veramente rock, ma i francesi sono stati sempre più bravi ed eversivi di noi. Molto più ricettivi nei confronti del mondo americano, più che nei confronti di quello inglese o di quello europeo in generale. Hai presente i blouson noir? Ecco, quello è il senso di ciò che sto cercando di dirti.
Scrivo altre cose, ma sono incompiute. Tre sceneggiature-trattamenti di film, un romanzo di sesso duro, una mia biografia, racconti per bambini…
Ho appena finito di lavorare in Rai, dove per 8 mesi sono andato in onda su Unomattina, e devo dire che è stata un’esperienza molto interessante, mi mancava. Si è interrotta perché è arrivato al comando uno del PD e dopo 12 ore sono stato fatto fuori. Così, per una mera questione di potere, non altro. Ma spero che la cosa possa avere un seguito. Magari non su Rai 1, che è troppo imbalsamata, magari su Rai 5… Certo che se in Rai se non hai “amici”, non vai da nessuna parte. E io non ho mai saputo coltivarmeli. Anzi, ho molti nemici. Colpa mia, la diplomazia non è mai stata il mio forte. E quando hai troppo successo nella vita tutti non vedono l’ora di calpestarti. C’est la vie.
In varie vesti, sei nell’editoria musicale da oltre mezzo secolo. Quant’è cambiato questo mondo e come è cambiato nel corso di tutto questo, soprattutto dopo l’avvento della rete? Continui a riconoscertici? E, sinceramente, la passione è sempre la stessa?
La passione sicuramente sì. Il resto, invece, è morto. Certo, la rete ha dato il colpo finale al nostro mondo perché ha offerto da subito tutto gratis e prima, affossando di fatto la nostra capacità di offerta. Come puoi competere?! Tanto più quando fornisci anche un prodotto spesso di bassa-media qualità? Le vendite sono progressivamente ma inesorabilmente diminuite, fino alla morte delle riviste. Quelle che sopravvivono, vendono due copie, non pagano nessuno, hanno tutti i collaboratori che lavorano da casa, e usano foto di merda quasi sempre rubate. Che tristezza! Ma, del resto, tutto passa. Anche il rock non è più quello di una volta. Come il jazz, o, cambiando settore, la pittura. Forse l’unica arte che rimane di alto livello espressivo è il cinema.
Avevo creato una rivista molto bella, dopo aver lasciato nella primavera 2011 il Mucchio in mano a degli incompetenti (che l’hanno fatto chiudere nel 2018): si chiamava Outsider, e era una sorta di Internazionale di rock: belle foto, carta di qualità, testi della madonna, bravi traduttori… Avevo trovato una persona squisita che si chiamava Gallo, il quale, per sola passione, ci investì sopra ben 100mila euro. Una figata, ma costava decisamente troppo. Pagavamo tutto e tutti. Dopo un anno e mezzo, proprio quando eravamo arrivati in pari e si prospettava un buon futuro, sono finiti i soldi. Le banche hanno chiuso i rubinetti e, a dicembre 2014, tutti a casa. Se vai sul sito di Outsider, si può ancora scaricare gratis il pdf dell’ultimo numero uscito. Ho provato a vendere il giornale perché era in pari, nessun rischio, un affare, ma… niente. Comunque, come sempre nella mia vita, la colpa fu di due donne…
La scelta di auto-pubblicare questo volume e anche gli altri di tua creazione, risponde a una scelta personale, in qualche modo ideologica?
Non sopporto Amazon anche se è il futuro, forse anche il presente. Poi ho fatto l’editore per 40 anni, che faccio? Vado da un altro editore? Per prendere il 5% quando e se va bene? Meglio tutto da solo. Scrivo quello che mi pare, non ho censure, rischio di mio… la libertà non ha prezzo. Salto anche le librerie perché vogliono il 40-50-60% del prezzo di copertina e ti pagano, se lo fanno, dopo un anno. Ho una cerchia di 2000 contatti, sanno quello che faccio, l’apprezzano, sono contenti, io pure. Come dice Clooney… «What else?». Non vedo i miei libri negli scaffali di Feltrinelli e allora? Pensi che possa importarmi?
Sappiamo che a breve usciranno ben due volumi a tua firma? Ce li presenti un po’ in anteprima?
Sì, grazie. Visto che il virus mi costringe a stare chiuso in casa, ne ho finiti due. Uno su John Mayall e il British-blues degli anni Sessanta. Ci sono tutti dentro, John Mayall, Cream, Fleetwood Mac, Free, Animals, Stones, Jethro Tull, Graham Bond, Alexis Korner, Duster Bennett, Aynsley Dumbar, Killing Floor, quel pazzo di Cyril Davies, Jo-Ann Kelly…
L’altro è incentrato sui Lynyrd Skynyrd, sugli altri gruppi maggiori del southern rock e sulle jam-band degli ultimi anni, più i 500 migliori dischi dal vivo del rock.
Penso siano bellissimi! Scriverli è il mio hobby preferito. Insieme al diving, alla montagna e al tennis. Ovviamente, i miei libri sono solo per appassionati. Sono prodotti per “pochi”. Potete richiedermeli contattandomi su Facebook. Al prezzo di 35 euro l’uno o 60 ambedue.
Se vuoi aggiungere qualcosa…
No. Concludo con una canzone di Springsteen. Posso?
Prego!
«Well time slips away
and leaves you with nothing mister but
boring stories of glory days…»
«Beh, il tempo scivola via
e ti lascia senza niente
se non noiose storie di giorni gloriosi…»
Intervista a cura di Domenico Paris