Nella logica delle arti visive, l’oggetto è perlopiù trovato, un object trouvè. Compare in scena come per incanto, se non per maleficio. È là dove non dovrebbe essere e non fa quel che dovrebbe fare. Silente e incongrua, la sua presenza sembra tendere a un unico scopo: lo spaesamento. La sua fissità enigmatica risveglia terrori e tremori primitivi; s’impone con l’ambigua serenità di un monolite sceso dallo spazio. Picassiano d’origine, duchampiano per definizione, surrealista nell’intimo, ha mantenuto sostanzialmente immutati i propri tratti anche quando l’avanguardia è diventata di massa e la modernità postuma. Connotati dubbi, sfuggenti, adatti a una ritrattistica d’ordine poliziesco; identikit dove il ricercato non è l’oggetto, ovviamente, ma il reato, giacché in un orinatoio sottratto alle funzioni corporali deve per forza nascondersi un disegno assimilabile al criminoso, un’offesa al senso comune. Ne consegue che, artisticamente considerato, un oggetto tutto può essere fuorché innocente. Soltanto nella pura narrativa, nemica irriducibile di qualunque anelito modernista, un simile attributo acquisisce pertinenza. Nell’universo letterario, infatti, l’oggetto si manifesta quasi sempre nella condizione opposta. È sempre perduto e il suo ritrovamento ci getta in un tragedia fanciullesca, che è cosa diversa dal primitivo. Non ci riporta alla notte dei tempi, ma all’alba del nostro tempo personale, il tempo in cui credevamo ancora all’amore eterno e la corruttibilità delle cose non ci toccava. Per qualunque manifestazione si propenda (se per l’oggetto trovato o il ritrovato), qui si marca un confine netto tra arti visive e letteratura, oltre che tra la modernità e il suo contrario. Varcarlo non è impossibile, ma rappresenta un azzardo. Il temerario ideale è un tipo particolare (sebbene non rarissimo) di romanziere: il pittore fallito.
Tale è e tale si considera Orhan Pamuk, che all’età di 22 anni uccise l’artista che dimorava in lui per consacrarsi alla scrittura. Il delitto non fu perfetto: il pittore finì per resuscitare impossessandosi della pagina, rivendicando storie, generando un’idea folle. Un mostro a due teste, un’opera che fosse insieme un museo e un romanzo. Per parecchi anni il romanziere e pittore fallito ha così collezionato oggetti; alcuni li acquistava, altri li prelevava nelle case di amici e parenti. Cose banali, oggetti trovati qualunque: un moschicida, una grattugia per le mele cotogne. Si prefiggeva però di trasformarli in oggetti ritrovati; in resti di una storia immaginaria, ossia di un perduto e ostinatamente rimpianto amore di gioventù. Sebbene la forma canonica del romanzo abbia infine prevalso, Pamuk non ha mai rinunciato al sogno iniziale di mettere in piedi un museo vero e proprio. Situato nel centro di Istanbul, in vecchio stabile di tre piani, il museo è aperto al pubblico dalla scorsa primavera e la sua genesi è ricostruita per parole e moltissime immagini in un volume titolato L’innocenza degli oggetti. Contemplandone le vetrine (tante quanti i capitoli del romanzo), teatrini allestiti con un gusto non lontano dalle scatole di Joseph Cornell, capita di sentirsi stretti in un incanto funereo. Il fantasma del romanzo non riesce a infestare davvero l’anima di questi oggetti, che sembrano invece reclamare un’altra storia, la loro. Alla fine (e trattasi di conclusione premeditata), il museo è un’entità a sé dove, più che l’innocenza, visitiamo il suo simulacro, la nostalgia, giacché, per dirla con Mondrian, «dopotutto, siamo tutti surrealisti».