L’isola che non c’era è il nuovo romanzo di Leonardo Bonetti con la postfazione di Antonio Prete, pubblicato nel 2021 dalla neonata casa editrice Il ramo e la foglia e, anzi, è proprio questo agile e apparentemente innocuo testo che ne apre le danze. Leo, il protagonista del romanzo, approda all’isola per farsi seguire lungo traiettorie intime e connesse strette al paesaggio intorno e alle presenze, umane e non solo, che lo abitano. Sentiamo delinearsi un ritmo della scrittura che fa dell’isola una metafora del romanzo e viceversa. Oppure forse nulla esiste ancora e la storia è da sempre, da farsi, a partire dal lungo lavorio (nove anni per la stesura del cartaceo pur non arrivando il romanzo a 200 pagine) che fa della lingua un lungo ponte attorno alla Cosa dell’arte e che imbastisce le storie dei personaggi in un luogo altro della parola. E il segreto dell’isola, come quello della scrittura, è proprio questo emergere e sommergere, approssimarsi e distanziarsi dal senso delle parole, dal loro perenne impossibile desiderio a farsi cosa. Imprevisto e simbolico è il reale. E la fine arriva, ahimè, troppo presto a dirci l’oblio di noi. Del mondo che crediamo.
«Occorre sperimentare a fondo l’isola e l’idea, dunque». Questo dice il dottor Elwin in un dialogo con Leo, intorno al governo dell’isola. Questo è un romanzo che domanda, che non risponde. E che fa della trama un pretesto della lingua. Sperimentare il desiderio mi sembra sia il compito fondante le azioni dell’autore e dei personaggi. Cosa puoi dirci a riguardo?
Inizierei dal testo letterario, dall’opera e dal suo ruolo nella dinamica che si instaura tra autore e lettore. Lo confesso, per me il libro è una zona, una regione privilegiata capace di sollevare e sollecitare domande. Una zona che si sfoglia, che si schiude. Il libro è sempre schiuso, infatti, mai del tutto aperto. Per questo non gli si può chiedere una sentenza, ma solo tante, innumerevoli risposte ancora da scriversi. Perché un libro induce a percorrere vie apparentemente impossibili, le stesse che si aprono davanti ai nostri sensi a ogni domanda che è capace di sollevare.
In questa dinamica l’autore non è depositario di verità né dispensatore di messaggi ma, semmai, strumento al servizio dell’esperienza dell’isola e dell’idea. E lo fa attraverso la sua voce e la sua parola, intorno a cui deve operare con le capacità artigianali di cui è provvisto.
Ma il libro non è un simulacro, intendiamoci, bensì un totem. E questo perché dietro il simbolo cui allude, misterioso fino a diventare oscuro, non c’è assenza di significato ma, semmai, un dio sconosciuto con cui entriamo in contatto attraverso la parola. Il libro è un albero genealogico scolpito da antenati le cui ascendenze non riusciamo più a risalire, una parabola di legno scritta in una lingua dimenticata e tutta da scoprire.
«Il paesaggio è dei più vari, il clima altrettanto: cime dalle nevi perenni, dolci valloni a mezzogiorno, d’un verde olimpico, sulle cui pendici pascolano vacche dal ventre pingue, perfettamente indifferenti.» Siamo nell’ouverture. Approdiamo nell’isola e già veniamo ammaliati da una scrittura raffinata, colta, ma anche corporale. Una scrittura del senso che ci ammalia. Che lavoro hai fatto sul linguaggio? e il paesaggio: sei stato ispirato da un territorio che di solito frequenti?
Il linguaggio nasce in me da una ricerca soprattutto musicale. E ciò che dici sull’unione tra lingua e corporalità come uno degli aspetti fondamentali della mia ricerca, mi trova sostanzialmente d’accordo. Non credo che la mia pagina sia uno studio puramente estetico, un esercizio di stile, insomma. Ma semmai il frutto della necessità di operare nel solco della tradizione letteraria; una letteratura, la nostra, particolarmente significativa, non c’è dubbio. Il rispetto che trasuda dalla mia prosa non vuole essere omaggio al monumento e al potere della parola della grande poesia ma estrarre, al contrario, la carica sediziosa che di quella tradizione rappresenta l’essenza, la sostanza vitale e persino bruciante. Quasi come l’escrescenza di un eros che la eccita e la produce. È in questo che entra l’altra grande protagonista della vicenda dello scrivere, e cioè la natura. Il mare, l’isola, il sole, l’abisso: tutto chiede di essere cantato, prega di essere detto, di avere parola. Il canto è voce e musicalità pensante. La natura vuole essere pensata in musica, il pensiero musicale esprimersi nella parola. Una parola che ha in sé sia un referente di senso o un aspetto puramente comunicativo, sia la pregnanza espressiva dell’oltre, quella capacità di dialogare con un punto posto al di là del significato che si sarebbe voluto esprimere.
Sul paesaggio, infine. No, l’isola non vive in un luogo né in un tempo definiti. È orizzonte possibile delle cose, rappresenta il reale nella sua più ampia potenza di significazione: è costruzione di un mondo a partire da ciò che siamo stati, ciò che siamo e ciò non riusciremo ad essere.
«Dunque quegli uomini credono sul serio alla loro realtà, comprende ora il nostro povero personaggio»: Leo, il nostro povero Leo, è un personaggio che si pone il dubbio di cosa sia reale e cosa no, e osserva con studio il mondo intorno. Come nasce Leo, e in generale come hai sviluppato gli altri personaggi e che tipo di confine la letteratura può (farci) percorrere tra reale e immaginario?
Leo è alter ego, forse, dell’autore stesso, ma in reductio, se così posso dire, un leo (alla latina, nella sua accezione poetica, “pelle di leone”) senza criniera, senza ardimento, sprovvisto e sprovveduto, in parte, di quegli strumenti intellettuali, oltre che fisici, di dominio o illusione di dominio sul mondo. È un Leonardo senza scrittura, insomma, o con la sola scrittura di cui è capace, fatta sull’acqua e sul vento; scrittura di chi sperimenta la parola nel suo aspetto puramente espressivo, che cerca il nome delle cose senza volerle dominare e, dunque, comprendere.
Un libro, in fondo, è un’isola che emerge dal mare dell’essere, come ogni opera che si rispetti. La parola poetica, l’unica possibile, se ne prende cura amandola e, dunque, senza pretendere di possederla. È la parola dell’espressivo che non ha mire né secondi fini ma si esaurisce e si fa sovrana nel momento stesso in cui rinuncia a ogni trono. A voler cercare di comprenderla, di ridurla a un significato definitivo, si rischierebbe, ancora, di farla sprofondare negli abissi.
La storia dell’isola è, in fondo, la storia stessa dell’opera.
Mentre l’altra parola, quella del potere e del dominio, ha ormai rinunciato ad amare per il solo scopo di armare. Sennonché l’arma della parola si rivolta sempre contro chi la scaglia.
«Io e Judith, dunque, salpammo contro ciò che eravamo stati, portando a compimento la nostra timida rivoluzione, rivoluzione che si avvera solo con l’inganno». Per molti aspetti il romanzo porta in scena anche un discorso politico di cui veniamo a conoscenza tramite la bocca dei personaggi che non sembrano farsi semplici portavoce di una presenza esterna. Proprio dall’interno delle loro vite, infatti, si sviluppano le idee, urgenti, di cui veniamo a conoscenza. C’è una necessità che mi sembra, però, sia anche dell’autore. Può esistere ancora oggi, in ambito letterario, una possibilità di rivoluzione? Un’urgenza che ribalti l’attuale, secondo me, conformismo digitale?
Ogni libro che voglia aspirare a divenire tale è già una rivoluzione in atto. Rivoluzione timida, come direbbe il Dottor Elwin, uno dei personaggi cardine dell’isola; rivoluzione che avanza passo passo, seguendo un percorso in salita attorno a questioni sempre centrali. Perché una rivoluzione (come ogni scrittura) non ammette diversioni, e si fonda sulla fiducia incrollabile nei confronti del lavoro paziente intorno alla parola. Così che, se un libro emerge (come un’isola) una rivoluzione è davvero compiuta. Ma, parafrasando un passo del libro, la rivoluzione compiuta non basta mai a se stessa, non può esaurire il senso del mistero dell’ordine delle cose. Intorno al libro, intorno all’isola, si scatena allora la parola del dominio; il suo scopo è estrarne il senso, il messaggio, “la formula che mondi possa aprire”, per citare Montale. Ma non è questo che la letteratura può dare. La letteratura è sempre fonte di interrogazione e un libro vale nella misura in cui, sollevando questioni sopite da tempo, contribuisce a cambiare chi si accinge alla sua lettura. Letto un libro non possiamo più essere gli stessi. Un libro deve cambiarci oppure rinunciare a costituirsi in libro.
Ma torno alla tua domanda: cos’è una rivoluzione oggi, e qual è il ruolo sedizioso della letteratura? Innanzi tutto la rivoluzione non è mai un salto nel buio, ma un processo consapevole, paziente, costruito nel tempo, mai fulmineo ma, semmai, studiato in ogni minimo dettaglio. Se la fiammata rivoluzionaria potrebbe apparire improvvisa, la sua preparazione si rivela un fiume carsico in marcia per passaggi misteriosi e invisibili, che scorre sotto i nostri piedi tutto il tempo necessario alla sua dirompente fuoriuscita. Proprio come la vena di una scrittura.
Infine, credo, la vera funzione rivoluzionaria della letteratura non può esaurirsi in uno sperimentalismo di forme, strutture o significati. È, la sua rivoluzione, il confluire di necessità e verità dentro una ricerca genuina. Nel momento in cui si scrive liberi dal controllo del proprio dominio sulla parola, allora si diventa davvero scrittori e, dunque, rivoluzionari.
Ci sono stati particolari riferimenti letterari, e non solo, anche musicali o artistici in generale, che pensi possano aver influenzato la tua scrittura?
Di riferimenti letterari è costellato l’arcipelago delle isole interne all’isola. E non solo. Non sono un purista né un integralista della letteratura. Tanti sono gli spunti che provengono dai vari ambiti del linguaggio e che operano in qualche modo all’interno della mia scrittura. Da quello letterario, come è ovvio, con riferimenti più o meno espliciti ai modelli della mia formazione. Mi riferisco soprattutto alla Ortese de Il porto di Toledo e de L’iguana. E, andando oltre confine, al Sebald de Gli anelli di Saturno o al Bernhard de Il soccombente. E, per passare alle altre arti attraverso una sorta di genealogia, forte è sicuramente l’influsso operato su di me dai due Tarkovskij: il poeta Arsenij e il regista (o poeta del cinema, per dir meglio) Andreij. Padre e figlio nel nome dei “russi”, come avrebbe ironizzato Tommaso Landolfi citando un suo importantissimo volume. Ed è proprio lo scrittore di Pico, traduttore finissimo dal russo – oltre ai Dostoevskij, Checov e Tolstoj – ad essere l’altro grande punto di riferimento letterario della mia ben più modesta ricerca. Infine, per ciò che concerne la musica, vivissimo agisce in me il grande capitolo della psichedelia e del rock tra gli anni settanta e ottanta, oltre alla seduzione sprigionata dal mio recente innamoramento per l’opera del grande compositore ceco Antonin Leopold Dvořák.
#
Leonardo Bonetti, L’isola che non c’era, Il ramo e la foglia edizioni 2021