È morta a 79 anni, dicono le fonti, anche se si sa che le fonti anagrafiche delle dive sono consegnate più alla leggenda che alla verità, e che Elizabeth Taylor, di origini inglesi, fosse una diva e una leggenda è poco ma sicuro. Bambina prodigio in quei primi filmetti anni Quaranta dapprima col cagnone Lessie e quindi con l’altro bimbo prodigio Mickey Rooney in Gran Premio, Liz Taylor “dagli occhi viola” in epoca di bianco e nero, ha percorso tutte le tappe del cinema di Hollywood senza saltarne neppure una. Da acerba ragazzina tanto viziata quanto impertinente, divenne mito in quegli straordinari duetti con il grande Spencer Tracy cui toccò l’ingrato compito di farle da padre in punto di nozze, dopo l’abusata saga delle Piccole donne, e qui va dato atto nazionalistico al nostrano doppiaggio che con quella voce insopportabilmente capricciosa ce la fece ancor più amare, come per altri celebri casi tipo Tina Lattanzi doppiante Joan Crawford o Bette Davis o dei più recenti Lionello e Amendola per Allen e De Niro.
Poi, tra i tanti mariti e le tante sfortune, anche di salute, la ragazzina viziata si trasformò in una giovane donna bellissima e tentatrice e con l’amico del cuore perché “altro”, si disse, non poteva essere, Montgomery Clift, contribuirà all’Oscar per lo straordinario Un posto al sole di Stevens e basterebbe quella frase finale del condannato a morte che nel vederla comparire in carcere per l’estremo saluto di bianco vestita proclamava trasognato alla telecamera «Ora so che sono colpevole» per consacrarne la leggenda fatale che per sempre l’accompagnerà. Tanto più quando fresca vedova del ricco Todd scapperà con il celebre marito della sua migliore amica Debbie Reynolds che la voleva consolare. Ma della amica tradita non se ne ricorda più quasi nessuno, del fedifrago ancor meno, mentre Liz Taylor avrà tanti altri mariti e soprattutto tanta altra gloria. Sarà irresistibile coi capelli corti e bagnati nello struggente L’ultima volta che vidi Parigi con Van Johnson e soprattutto nel memorabile La gatta sul tetto che scotta con quel Paul Newman che più di tutti per bellezza le somigliava, mentre con gli amici di sempre James Dean e Rock Hudson farà parte di quell’improbabile trio dell’interminabile saga dal significativo titolo Il gigante nuovamente di Stevens.
Negli anni Sessanta, dopo la figura inquietante della plagiata devota alle inqualificabili scorribande del perverso cugino nel teatrale Improvvisamente l’estate scorsa di Tennesse Williams, dove, le va riconosciuto, gareggia in bravura con un mostro sacro come Katharine Hepburn, arriverà un immeritato Oscar per quello scialbo Venere in visone, sol perché si temeva ancora una volta fosse l’ultima sua prova, ma invece e fortunatamente non fu così. La Roma imperiale degli anni sessanta infatti la richiamò a Cinecittà insieme alla legione americana per impersonare (e chi del resto se non lei?) la regina Cleopatra nel più fallimentare kolossal della storia del cinema prima che arrivasse la catastrofe di Cimino, ma l’incontro con un grande attore di teatro come Richard Burton portò in dote alla diva del cinema hollywoodiano non solo amore e scandali ma anche quella artistica maturità che le mancava, e arrivarono così le grandi prove attoriali di Chi ha paura di Virginia Woolf? e soprattutto di quella desolata ricercatrice di giovani amori a pagamento con il fascinoso Warren Beatty nel bellissimo e sottovalutato L’unico gioco in città, guarda caso ancora del fido regista Stevens. Non mancò neppure l’esperienza con il più grande attore di quegli anni, visto che la troviamo a fianco di Marlon Brando nel controverso Riflessi in un occhio d’oro di John Houston né la riproposizione cinematografica del suo celebre matrimonio bis con Burton in Divorzia lui e divorzia lei.
L’imperitura leggenda di Liz Taylor dagli occhi viola e dai tanti mariti continuò negli anni successivi, anche se gli sforzi di una vita tanto spesa e su tutti i fronti le ridussero un po’ i cimenti di ciack, del resto ormai inutili a garantirle un posto nella storia del cinema già ampiamente e da tempo conquistato, anche se non mancarono alcune unghiate degne di rilievo. Dispiace solo che tra gli ultimi lasciti di cotanta fama e di cotanta storia compaia quella improbabile icona trash di uno dei più brutti film della storia del cinema tanto che, se l’amico Zeffirelli, dopo averne sapientemente valorizzato i talenti come Bisbetica domata, le avesse risparmiato quel Giovane Toscanini ove decise di condensare tutto il peggio della propria cine-ispirazione, meglio avrebbe fatto a lei e a noi.
Davide Steccanella
Leggi anche Gli anni Cinquanta