Con il libro Il bambino in esilio. I migranti. Volume 1 (meritoriamente pubblicato quest’anno dalla Nave di Teseo) lo scrittore sloveno Lojze Kovačič racconta una discesa nell’inferno dell’estraniazione linguistica, della retrocessione sociale, finanche della fame.
Nato nel 1928 a Basilea da padre sloveno e da madre franco-tedesca Kovačič all’età di dieci anni, assieme ai genitori e alla sorella viene espulso dalla Svizzera dopo che il padre Vati, acceso nazionalista, aveva rifiutato di chiedere la cittadinanza svizzera. L’intera famiglia viene dunque rimpatriata in Slovenia, all’epoca parte integrante del Regno Jugoslavo. Sarà ospite mal digerita e infine ostracizzata in una fattoria dello zio nella Bassa Carniola, successivamente si trasferirà nella capitale, dove il padre proverà invano a inserirsi nel commercio al dettaglio delle pelli.
Pubblicato in Slovenia nel 1983, tradotto in inglese solo nel 2016, il romanzo narra con gli occhi di un adolescente le vicende familiari seguite alla espulsione dalla Svizzera, vicende spesso legate alla povertà se non all’indigenza. Vi è descritto benissimo il clima sociale e politico degli anni successivi alla Grande Depressione, con annesse le ancora profonde ed esiziale ferite sociali e culturali inferte a milioni di persone in Europa e in America negli anni che vanno dal 1938 sino allo scoppio della Seconda guerra mondiale.
Bubi il protagonista, sbalestrato dentro un mondo che non riconosce e di cui non parla la lingua, riporta le proprie esperienze. Dapprima in campagna – dove il rapporto con la natura e con l’avidità contadina saranno i tratti più dirompenti, poi in città – parlandoci di amicizie, di amori frugali o non consumati, di gang di ragazzi che si affrontano con fionde e mazze, di una madre ansiosa e paranoica, di un padre malato e declassato dalla precedente condizione sociale, trasformato quasi per ritorsione da fervente nazionalista ad acceso nazista antisemita, della sorella la cui sola aspirazione piccola borghese è escogitare un matrimonio che le garantisca una vita tranquilla.
Kovačič scrive in modo quasi automatico: brevi frasi, riflessioni che si susseguono l’una all’altra, mai esponendosi in un giudizio morale. Un susseguirsi di ricordi legati in ellissi narrative che ricordano lo stile di Céline in Guignol’s Band, con immagini neutrali, topografie accurate dei luoghi, avvenimenti descritti in modo dinamico, ritratti impietosi di sloveni, primi amori scevri da ogni passione. Una sorte di stream of consciousness composta di scansioni cinematografiche della vita di gente comune in un anteguerra fatto di mercati agricoli, ospedali rabberciati, appartamenti e stamberghe dove si dorme capovolti in uno stesso letto, fiumi e valli, ruberie di raccolti, piccole truffe, ignominiose elemosine, pegni di pellicce (Bubi costretto dalla madre a impegnare porta a porta stracci di pellame per poter pagare le cure mediche del padre, afflitto da angina ed edema polmonare, o per pagare un tozzo di pane o un sacco di carbone per la famiglia stretta dall’indigenza e dal gelo invernale).
Il tutto contrassegnato dalle asprezze dell’apprendimento dello sloveno per cui Bubi sarà a scuola e fuori “il tedesco”, il traditore, lo straniero malfido costantemente dileggiato. Questo sino all’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse. Il padre, sostenitore di Hitler, costringerà il figlio a marciare con la divisa della Hitlerjugend, per cui alla fine della guerra madre e figlio saranno arrestati per aver favorito gli aggressori. Il padre è già morto nel 1944. Dirà: di tutte le umiliazioni dell’esilio le più mortificanti saranno l’eterno elemosinare e scusarsi per questo per quello e quando avrai smesso di elemosinare e chiedere scusa, anche se quel tempo sarà passato, quella disgrazia rimarrà come un marchio, un tarlo per cui nella memoria di chiunque mai sarai cambiato’.
Kovačič ha questo di peculiare, la densità formidabile con cui ricorda senza patemi, senza mai compiacersi. Operazione della memoria direi asettica, neutralizzata, perché come dirà Bubi “devi guardarti dalla fantasia che dovrebbe avere vergogna di se stessa, considerando ciò che la gente ha dovuto sopportare”. È attraverso di essa che l’autore ricostruisce un’epoca terribile e insieme squallida fatta di privazioni, egoismi, furberie, lotte di classe, degradazioni, tutto frutto malsano della miseria, debordante nell’obnubilamento progressivo delle coscienze, che condurrà dritti dritti al revanscismo, al consolidarsi della rabbia sociale poi diventata adesione popolare al fascismo e quindi al cancro dell’antisemitismo.
Opera che lo fa assimilare a un altro grande della letteratura slava contemporanea, ossia allo scrittore serbo Danilo Kis, e al russo Tolstoj per l’acutezza psicologica delle cause della povertà e della rabbia sociale, e allo svedese Knut Hamsun di Fame. Kovačič dirà: “Scrivere è più impenetrabile di una roccia, non sono capace di scrivere di quanto accade se ometto quanto si cela dietro l’evento, cioè l’inusitato, lo strano, l’irreale”.
Perciò la sua scrittura non è mai delucidante, ricorda più una ascensione verso un segno senza che questo venga mai assunto pienamente in direzione della pienezza del concetto, come una scala che si percorra senza sapere mai dove conduca, ma che si deve percorrere senza poterne svelare in anticipo la destinazione. L’indefinibilità della meta, dunque, rimanda al mistero insito in ogni vita, che si raccorda al dubbio cartesiano per cui l’Io sussiste. Perché per un Lojze Kovačic profondamente cristiano, vissuto da reietto dapprima in una Jugoslavia ateistica sino alla sua dissoluzione, poi cittadino sloveno in una società ormai laicizzata e consumistica, l’evidenza del dubitare, il portato delocalizzante della coscienza umana, è la suprema prova dell’esistenza di Dio.
Marcello Chinca Hosch
Recensione al libro Il bambino in esilio. I migranti. Volume 1 di Lojze Kovačič, La nave di Teseo 2021, pagg. 360, € 20,00