Stenio Solinas, giornalista e scrittore, è nato a Roma nel 1952. È stato inviato e editorialista per Il Giornale e per cinque anni ne ha diretto le pagine culturali. Il 30 novembre del 2023 è stato premiato dall’Academie française a Parigi.
Tra i suoi scritti più celebri ricordiamo Compagni di solitudine, L’onda del tempo, Percorsi d’acqua, Vagamondo, Da Parigi a Gerusalemme. Sulle tracce di Chateaubriand, Gli ultimi Mohicani, L’infinito Sessantotto. Per Neri Pozza ha pubblicato Il corsaro nero. Henry de Monfreid l’ultimo avventuriero (Premio Acqui Storia, 2016) e Genio ribelle. Arte e vita di Wyndham Lewis (2018). Solinas ha curato e/o introdotto opere di Louis-Ferdinand Céline, Jorge Semprun, Robert Brasillach, Pierre Drieu La Rochelle. Sua è anche la traduzione e la postfazione di La profezia di Cazotte, di J.F. de La Harpe , e di L’ultimo pasto di Cazotte di Paul Morand, usciti in un unico volume per le edizioni Settecolori. Attualmente è direttore editoriale della casa editrice Settecolori.
Carlo Tortarolo
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Le è stato conferito il prestigioso premio Prix Du Rayonnement De La Langue Et De La Littérature Françaises 2023 dell’Académie Française per la sua attività editoriale, cosa significa per lei?
Il premio comprende l’attività di scrittore nel senso che durante la premiazione sono stati citati libri che ho fatto su Louis Antoine de Saint-Just e Henry de Monfreid. In generale, insomma l’attività chiamiamola giornalistica o di scrittore fatta nel corso degli anni.
A questa poi però si è aggiunta indubbiamente una componente editoriale perché, attraverso la Settecolori, abbiamo a ripubblicato o pubblicato per la prima volta scrittori francesi importanti e che in Italia erano se non se non sconosciuti comunque in qualche modo dimenticati o un po’ messi da parte. Quindi il premio era più completo riferendosi a quello che io ho fatto nel corso degli anni e comprendeva questi due aspetti insomma quello chiamiamolo dello scrittore o del divulgatore giornalistico e poi quello sicuramente editoriale.
Tra l’altro Henry de Monfreid, del quale lei ha scritto il libro Il corsaro nero. Henry de Monfreid l’ultimo avventuriero – che vinse l’Acqui Storia nel 2016 – ha rischiato di entrare nell’accademia e diventare Immortale di Francia?
Henry de Monfreid voleva questo riconoscimento e negli ultimi tempi della sua vita si era intestardito. C’è un carteggio con Henry de Montherlant che ai tempi era già accademico e gli chiede: -Ma lei ha avuto una vita bella, piena e avventurosa, ma che cosa le dà in più questa onorificenza? Se vuole il mio voto io glielo do, ma questo non aggiunge nulla al suo palmares-. Aveva ragione perché l’opera d’arte di de Monfreid è la sua vita. I suoi libri sono anche interessanti e alcuni reggono anche a distanza di anni. Ma erano una produzione ampia e a volte ripetiva.
L a fortuna che non ha avuto de Monfreid l’ha avuta Maurizio Serra un autore che è diventato Immortale di Francia, succedendo a Simone Veil e occupando il seggio n. 13 che in origine fu di Racine. Tra l’altro Serra ha pubblicato Fratelli separati. Drieu-Aragon-Malraux (Settecolori, 2006).
Esatto e quello che ha citato è un libro importante sia per Serra sia per Settecolori anche perché quando lo pubblicammo all’epoca riscosse l’interesse di Giorgio Napolitano che era allora presidente della Repubblica e lo citò come libro che si era portato dietro da leggere durante l’estate.
Perché era un libro significativo, insomma, sulla temperie intellettuale fra le due guerre.
Da quel libro che viene prima pubblicato in italiano poi successivamente tradotto, credo o addirittura riscritto da Maurizio Serra per l’edizione francese, cominciò anche un po’ il cammino editoriale di Serra in Francia, con tutti i meritati riconoscimenti che ha avuto successivamente.
Quale è la missione di Settecolori e quindi qual è lo spirito con il quale lei affronta la direzione editoriale.
Missione è un termine eccessivo che metterei da parte.
Lo spirito è uno spirito da un lato di curiosità e di interesse a far conoscere a un pubblico più ampio quelle che magari potevano essere predilezioni o gusti particolari che potevo avere io o gli amici che poi si sono raggruppati intorno a questa iniziativa.
Siamo un gruppo di persone con specificità e spesso interessi anche diversi ma convergenti sulla qualità della scrittura, su un certo gusto trasversale degli schieramenti, sul nessun interesse per la letteratura squisitamente commerciale.
Quindi l’idea di fare una casa editrice che avesse anche da un punto di vista grafico una sua ragion d’essere è quello che appunto ci ha spinto in questa iniziativa.
Abbiamo un’attenzione, insomma, per racconti o per vite particolari, abbiamo pubblicato l’autobiografia di Wilfred Thesiger (La vita a modo mio) che è stato un grande viaggiatore novecentesco. Abbiamo pubblicato di Pierre Mac Orlan La condottiera Elsa che è un po’ il primo romanzo distopico del 900 applicato alla rivoluzione bolscevica. Oppure penso a La seconda morte di Ramón Mercader di Jorge Semprún che è un romanzo straordinario per come viene o vissuto dall’interno il mondo della Rivoluzione russa ma soprattutto dello spionaggio e del controspionaggio, di queste vite dormienti e che poi improvvisamente venivano riportati in superficie dall’ideologia comunista. Diciamo che c’è una un’attenzione alla curiosità, al non essere ortodossi, al cercare sempre delle strade particolari e non particolarmente seminate.
A fine dell’anno scorso mi hanno chiesto qual era il più bel libro che avevo letto nel 2023 e ho risposto senza esitare: Il montaggio di Volkoff.
Il montaggio è un capolavoro novecentesco che poi resiste straordinariamente ai tempi perché è un romanzo scritto nel momento in cui l’Unione Sovietica era un colosso e l’idea come dire diciamo della guerra fredda o dello scontro fra le grandi potenze esisteva ancora.
Letto trent’anni dopo, quando il regime comunista non c’è più, così come tutta quanta la disinformazione, chiamiamola così, di matrice marxista, ci accorgiamo che continuiamo a vivere nell’epoca della disinformazione di massa. Con una serie di tecniche di manipolazione che sono assolutamente in vita.
Questo ci fa capire come ci sia un qualcosa, proprio all’interno dell’Occidente stesso, che si presta a questa vulgata manipolatoria e quindi è interessante capire fino a dove arrivi e per quali meccanismi possa propagarsi.
Un altro libro che avete pubblicato riguarda proprio un tema affine perché Le Lezioni della storia dei Durant riporta che Roma già ai tempi di Giulio Cesare aveva raggiunto il livello più basso ma per decadere ed estinguersi del tutto ci sono voluti ancora 500 anni. Quindi si auguravano che anche la nostra decadenza durasse così tanto.
Ah, certo. Ma lì c’è anche un’osservazione che aveva fatto, se non ricordo male, Ernst Jünger quando parlando della Seconda guerra mondiale e dello scontro stalinismo-nazismo-democrazia occidentale sosteneva che ci fosse una sorta di “corrente del Golfo” della sinistra universalmente riconosciuta che partiva dalla rivoluzione francese e poi, centocinquant’anni dopo, aveva un tentativo di oscillazione da sinistra verso destra.
Lui vedeva sia nella Prima guerra mondiale sia poi nella seconda come due guerre, diciamo, suicide dell’Europa in cui alla fine venivano a scontrarsi due modi opposti di concepire lo spirito umano. Quindi, da un lato, una idea progressista e che mirava a una sorta di emancipazione finale dell’essere umano e dall’altra invece un tentativo di ancorarsi su delle realtà più tradizionali o comunque una volontà di sostituire a quelli che erano i diritti quelli che erano i doveri.
Insomma, era un discorso più in generale su come appunto lo spirito umano si poneva nei confronti di sé stesso e del mondo circostante.
Le chiedo una cosa riguardo all’Italia perché è a mio parere uno dei giornalisti e degli scrittori (anche se ha scritto molto meno di quello che avrebbe potuto) che non ha avuto il giusto riconoscimento nel 900 è stato Leo Longanesi, con la sua bottega in cui scrivevano tutti. Che cosa è stato per lei Longanesi?
Longanesi fa parte un po’ di tutta quanta quella generazione fra le due guerre che cerca di uscire dall’ambito di una sorta di Italietta giolittiana in un modo o nell’altro condannata al piccolo cabotaggio e di dargli invece una dimensione nazionale che in qualche modo fosse anche funzionale alla grandezza pregressa dell’idea d’Italia non come Stato ma appunto proprio come idea culturale.
C’è una frase di Mario Missiroli molto bella che diceva che insomma “il dramma dell’Italia era dovuto proprio dall’avere un passato troppo ricco” per quello che era insomma poi la realtà chiamiamola così geografica e politica del paese stesso e quindi una continua oscillazione fra le idee di grandezza supportate appunto dal passato e quella che era però la sua dimensione reale che era una dimensione di piccola potenza, nemmeno di media potenza.
E quindi la generazione Longanesiana è la generazione che vive questa lacerazione fra il desiderio di essere all’altezza di quella che era stata una straordinaria fioritura artistico culturale a quella che era invece una realtà diciamo geopolitica molto più piccola.
Da questo scontro poi derivavano i tentativi tipo quelli del Fascismo di recuperare una grandezza retorica passata e il dover però fare i conti con la realtà del presente e quindi con le lezioni, spesso impietose, della storia.
Quindi Longanesi era anche un po’ questa cosa qui come lo erano un po’ tutti quelli della sua generazione.
Non saprei bene come definirli ma erano un po’ costretti da un lato a un lavoro intellettuale ma dall’altro avevano un desiderio e una volontà anche di incidere politicamente quindi erano un po’ come centauri.
Insomma, che da un lato avrebbero voluto svolgere la loro attività intellettuale dall’altro lato volevano anche incidere un po’ sul sociale, sul politico, insomma.
Se Lei pensa che da Malaparte ad Ansaldo allo stesso Longanesi è tutta quanta gente che in un modo o nell’altro vorrebbe spiegare ai politici come si fa politica, spesso con risultati per loro disastrosi.
Ma insomma c’era questa volontà questa idea, insomma, che la cultura in un modo o nell’altro potesse agire politicamente che poi noi abbiamo la lezione di Machiavelli alle nostre spalle, per cui non è che loro dicessero delle cose completamente diverse da quella che era anche la tradizione italiana.
Quindi anche il rapporto che hanno avuto con il Fascismo è legato proprio a questa a questa sorta di “estetismo armato” per usare una bella definizione sempre di Maurizio Serra.
Era tutta gente che pensava di poter incidere sul sociale sul politico della propria epoca.
Sì, tra l’altro Longanesi aveva inventato alcuni motti che poi si sono rivelati forse anche dannosi come “Mussolini ha sempre ragione”.
Sì, ma una delle frasi più belle di Longanesi è quella che dice che “il Fascismo non è bello per quello che è ma per quello che promette”, cioè, loro erano tutti qua, era tutta quanta gente convinta di poter, in un modo o nell’altro, portare il proprio mattone alla edificazione di un tipo di società diversa. Se uno pensa al lavoro pittorico di Sironi se ne rende perfettamente conto. È un pittore moderno novecentesco che pensa di rifarsi a quelli che erano i murali o la grande pittura statuaria dell’epoca romana. Quindi erano tutti rivoluzionari ma perché volevano dare al loro tempo un’impronta, non erano dei passatisti che volevano rifare il Colosseo, volevano semmai un Colosseo di impronta fascista.
Quando finisce la Seconda guerra mondiale in Italia ci si trova in una situazione complessa, un po’ come ai tempi dell’Unità e a un certo punto Longanesi capisce che non c’era praticamente più nulla o poco da conservare e si identifica con la società borghese con una battuta in cui chiedeva di abbassare i prezzi, dicendo: “rimane solo una voce: che abbassino i prezzi! È la nostra”.
Lui aveva queste uscite come quando disse che: “in Italia non si poteva non si poteva fare la rivoluzione perché ci si conosce tutti e poi solitamente la rivoluzione terminava poi all’ora dell’aperitivo”.
Credo che Longanesi si sia inventato per disperazione un’Italia che non esisteva.
Quella delle vecchie zie (ndr. Ci salveranno le vecchie zie), degli ufficiali in pensione, di quella borghesia che lui aveva irriso durante l’antifascismo ma che poi diventava un po’ una formula consolatoria per tutto quello che non gli piaceva dell’Italia post fascista repubblicana che era venuta a nascere.
Il problema di Longanesi e di tutta quella generazione è che loro avevano visto il Fascismo da vicino quindi erano perfettamente in grado di valutarne da un lato come dire le aspettative, dall’altro lato le cadute.
Ma lo avevano vissuto perché ci avevano anche creduto, poi avevano finto di credere, poi avevano smesso di credere e poi si erano per certi versi rivoltati sperando che finisse al più presto possibile.
Però vi avevano partecipato e quindi, rispetto soprattutto all’antifascismo dei fuoriusciti, loro avevano vissuto quelle esperienze, quindi, erano in grado di valutarla nel bene come nel male e sicuramente erano poi tutti dei mussoliniani.
Cioè, quello che un po’ si dimentica sempre quando si fa la storia del Fascismo è che Mussolini era, come dicevano quelli de La Voce di Prezzolini “uno di loro”. Era uno che aveva scritto per La Voce.
Era uno che da direttore del Popolo D’Italia aveva avuto come corrispondenti da Ungaretti a Prezzolini fino a Soffici e quando era stato espulso dal Partito Socialista aveva ricevuto un telegramma firmato appunto da Prezzolini, Lombardo Radice e Salvemini che diceva: “Partito Socialista ti espelle Italia ti accoglie”.
Mussolini era uno in grado appunto di prefare “Il porto sepolto” di Ungaretti e se fosse andato a un vernissage futurista avrebbe saputo di che cosa si parlava.
È vero, tra l’altro un giovanissimo Longanesi (non ricordo bene dove l’ho letto ma, se non sbaglio, è ne I conti con me stesso di Montanelli) racconta che insieme ad un altro ragazzo incontra Mussolini a Rimini quando erano molto giovani e gli confessano di essere anarchici. Lui gli risponde: “conservatevi sempre anarchici perché serve a rimanere giovani”.
Sicuramente è così, il rapporto era strettissimo.
Mi ricordo, non so più adesso dove l’ho letto, ma un personaggio come Ardengo Soffici che con il suo ritorno all’ordine segna un po’ come dire l’accettazione in pittura di quello che è appunto la fine delle avanguardie tradizionali delle quali Soffici era stato uno dei principali responsabili.
Una rivista come l’Acerba di Soffici e Papini segna l’accordo con i Futuristi e il tentativo ulteriore di svecchiare il panorama artistico italiano.
Soffici quindi diventa, subito dopo la Prima guerra mondiale, un po’ il nume tutelare della generazione successiva, appunto, quella dei Longanesi, dei Maccari che in un modo o nell’altro scalpitano per avere il loro il loro posto al sole, il loro riconoscimento.
E ogni volta che questi si andavano a lamentare da Soffici lui diceva: “Va bene ma che problema c’è? Si va da Mussolini e gli si parla” capisce?
Eh, sì.
Quindi c’era proprio questa idea, insomma, che alla fine facessero tutti quanti parte di uno stesso mondo culturale di uno stesso mondo ideologico.
Quando Malaparte dice che La Voce era stata la “serra calda” del Fascismo e dell’antifascismo dice una grande verità.
Perché La Voce poi è la rivista in cui appunto si formano Papini, Soffici, appunto Prezzolini, Giovanni Bòine, Scipio Slataper, però si forma anche Amendola.
Il Giovanni Amendola fiero avversario del Fascismo sotto il profilo, chiamiamolo così, liberal conservatore è l’Amendola interventista vociano che descrive la guerra come “l’esame che ogni popolo è chiamato a sostenere”.
È un vociano Gobetti, è un vociano Gramsci.
Cioè, c’è proprio tutta quell’Italia che esce contro il Positivismo, contro il Giolittismo, contro la politica del parecchio e che poi dopo la Prima guerra mondiale finisce un po’ in mille rivoli.
Ma il Socialismo rivoluzionario o appunto il Fascismo o il Nazionalismo amendoliano o l’idea diciamo dei Soviet alla Fiat di Gobetti provengono tutti da quello stesso mondo.
Non so più dove l’ho letto che Lenin avesse detto a una delegazione socialista riferendosi a Mussolini: “vi siete fatti scappare l’unico che avrebbe potuto fare la rivoluzione”
L’unico rivoluzionario, è sicuramente così.
Riflettendo sul discorso dei coniugi Durant e pensavo a un concetto che mutuo dalla biologia: Quando una specie si estingue si può estinguere funzionalmente non solo quando sono morti tutti gli esemplari ma anche quando non è più in grado di riprodursi.
Quindi le chiedo, secondo lei, la nostra civiltà è in estinzione o si è già estinta?
Ma guardi mi fa una domanda a cui onestamente non sono in grado di rispondere.
Io credo che tutte quante le civiltà abbiano dei cicli e che, quindi, ci siano delle decadenze che possono durare anche vari secoli e che poi possono poi appunto estinguersi completamente oppure possono rimanere dei residui passivi e cose di questo genere.
Non avendo un’idea della Storia come progresso verso un Bene sempre superiore credo che poi ci siano dei momenti in cui la decadenza è più forte e dei momenti in cui la decadenza trova una nuova forma vivifica che impedisce una degenerazione ancora più forte.
Quindi credo che la Storia sia un po’ nelle mani delle persone che la fanno.
Detto questo, che noi si viva, oggi come oggi in una decadenza, intendo noi come mondo Occidentale, questo è un dato di fatto talmente evidente che non è nemmeno il caso di sottolinearlo.
Basta guardare la produzione media della narrativa e della saggistica italiana di oggi e paragonarla a trenta o cinquant’anni fa per rendersene conto, insomma.
Questo vale un po’ anche vale un po’ anche nel cinema, vale anche nell’arte e in tutte quelle che sono le forme del pensiero.
Che poi ci sia invece una fuga in avanti dal punto di vista, diciamo così, tecnologico-scientifico questo è un altro elemento, che però, ci dovrebbe un far riflettere sul tipo di vita che ci stiamo organizzando.
Però qua forse usciamo dal seminato di questa intervista.
Le chiedo ancora una cosa che deriva da una riflessione che stavo facendo, perché stanno uscendo molti libri sul tema. Oggi si parla molto di memoria, da una parte e di cancel culture dall’altra.
La memoria sembra diventata quasi un mercato per cui esiste per qualcuno un male che va ricordato e mali che vanno dimenticati perché tra virgolette sono stati “giusti” o chissà cos’altro.
Mi chiedevo: Per esorcizzare il Male non sarebbe più utile la damnatio memoriae degli antichi rispetto alla continua rievocazione del fatto malvagio?
Ma guardi credo che questo un po’ rientri nel discorso che si faceva prima, citando Volkoff cioè la mia impressione è che siamo all’interno di una società che ha perso completamente quello che era da un lato il concetto di Storia dall’altro il concetto di Trascendenza. Cioè, la capacità di comprendere i fatti del passato e in un modo o nell’altro metabolizzarli facendoli parte poi del vissuto successivo.
Noi continuiamo ad andare avanti applicando dei termini moralistici o di morale a quelle che sono categorie che con la morale c’entrano molto poco.
E finiamo per costruirci una specie di società di puri che, però, poi come tutte le società dei puri si trova sempre qualcuno più puro che ti epura.
E questo a mio parere deriva dal fatto che non ci sono più delle idee forti intorno alle quali veicolare un discorso storico.
Ci sono delle negazioni e c’è la pretesa che nessuno debba avere un riconoscimento per ciò che dice ma che tutto debba essere messo sullo stesso piano.
Contemporaneamente però poi si dà a una specie di Tribunale della Morale il diritto di giudicare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
È un po’ la lotta tra uguaglianza e libertà di cui parlavano i Durant quando non si trova il giusto equilibrio.
Certo.
La ringrazio e in conclusione le chiedo quali sono i prossimi progetti di Settecolori.
Allora guardi noi siamo appena usciti adesso con un libro che si chiama Smara che sono dei taccuini di viaggio che un francese che si chiamava Michel Vieuchange fece negli anni 20, andando appunto in questa capitale “proibita” della Mauritania.
È un libro di viaggio molto particolare perché Vieuchange era una specie di personaggio un po’ alla Rimbaud, quindi un viaggiatore in cerca di un Assoluto e per certi versi anche in cerca di un significato da dare alla propria esistenza.
È un libro molto particolare è molto scabro perché Vieuchange riuscì ad arrivare a Smara ma poi la poté visitare solo per qualche ora e poi nel viaggio di ritorno morì per la febbre e per le fatiche che aveva che aveva sopportato durante l’andata.
È un libro che Paul Bowles, (l’autore di Il tè nel deserto), definì “un viaggio incredibile nel nessun luogo” una specie di discesa agli inferi nella parte più misteriosa dell’Africa settentrionale.
Poi pubblicheremo due libri di due autori inglesi.
Uno di Steven Runciman che è il grande studioso delle crociate di cui traduciamo questo Alfabeto del viaggiatore che è un po’una summa dei luoghi dove Runciman andò durante la prima metà del 900, quando ancora viaggiare era un piacere e si viaggiava in luoghi fra loro diversi e riconoscibili appunto per la loro diversità.
Poi ne pubblichiamo un altro di uno scrittore inglese che si chiama Justin Marozzi che è uno studioso di Erodoto che ha scritto un libro che si intitola Il padre della Storia e dove riporta i suoi viaggi sulle orme di Erodoto.
Quindi va dalla dall’Egitto, alla Turchia, ovviamente alla Grecia, alla Mesopotamia, cioè l’Iraq.
Erodoto è considerato “il padre della Storia” ma Marozzi te lo fa rivivere proprio andando a sottolinearne le capacità di curiosità e di assoluta mancanza di ogni pregiudizio, insomma, è un po’ quello che dovrebbero fare gli storici contemporanei.
Poi pubblicheremo il secondo volume delle memorie di Nadežda Mandel’štam che si chiama Speranza abbandonata e che è un po’ un resoconto fatto dalla Mandel’štam di quelle che erano le amicizie sue e del marito e di quella che era la Russia prima leninista poi stalinista in cui loro si trovavano a vivere.
È un libro molto bello che riporta alla luce questa incredibile mattanza ideologico poetica che fu il regime staliniano negli anni appunto fra le due guerre.
Credo che la concentrazione di morti ammazzati oppure deportati e morti nei lager oppure eliminati con un colpo di pistola di poeti, filosofi, romanzieri e intellettuali non abbia paragone in tutto l’Occidente europeo.
D’altronde poi gli intellettuali sono i primi che vengono fatti sparire… e questo è un grosso rischio.
Assolutamente.
La ringrazio per questa intervista e per questa attività editoriale paragonabile al lavoro degli amanuensi che ha riportato alla luce delle vere e proprie perle della Letteratura.
Sono contento che venga apprezzata, ringrazio Lei e la rivista Satisfiction.