Ultimo capitolo della trilogia delle Visioni iniziata nel 2019, con questo nuovo approdo nel plumbeo mondo di Nina, Lorenza Ghinelli porta a maturazione un discorso sulla formazione adolescenziale che l’autrice riminese porta avanti sin dal suo primo romanzo.
Chi ha avuto modo di conoscere Nina dalla sua prima apparizione (recuperi caldamente consigliati ma non obbligati per apprezzare quest’ultima uscita) potrà già intuire il focus su cui verte la narrazione di quest’ultima ballata: la ragazzina ora ha quattordici anni e le ombre di ciò che è stato hanno creato un substrato di pece e timori che ne alimentano la zavorra dei giorni. La sua routine si è trasformata in un circolo vizioso di apatia e disillusione e nelle prime pagine tutto ci appare come esternalizzato in una bolla il cui spessore protegge, isola, allontana. Le cene in casa della protagonista si riducono a pochi scambi di parole, mamma e papà bloccati nel timore di dire troppo o troppo poco e un fratello apprensivo ma incapace di comprendere realmente la voragine che quella crescita precoce e imposta ha scavato nel corpo e nella mente della giovane sorella. Dell’età più fragile s’è perso ogni stupore e la minaccia pandemica che si sta abbattendo oltre le mura di casa non alimenta le speranze.
«La notte gelata, stretta tra le spire di una nebbia densa, quella sì che le faceva paura. La nebbia pareva un’altra creatura, ma gigante e priva di occhi. Nina si era immaginata che potesse spalancare le fauci all’improvviso, rivelando denti scintillanti e aguzzi sotto la luce della luna, velata come una spettatrice elegante e distaccata durante un rito funebre.»
L’autrice a questo giro ci pone al cospetto di uno scenario post apocalittico in cui gli adulti restano ai margini, impotenti, comparse evanescenti di un palcoscenico claustrofobico. Che si tratti di genitori timorosi, preti o assistenti sociali dalle oblique intenzioni, il loro operato appare qualcosa di minuscolo, laterale, se non dannoso. Gli adolescenti rubano la scena ma stavolta il focus si sposta, agile e rapace, dalle incursioni crepuscolari della protagonista nel suo mondo sempre più ovattato, dando ampio respiro ai timori di Alfredo, fratello rude ma protettivo che rivestirà un ruolo cruciale nel canovaccio degli eventi e Leonardo, quindicenne con un tragico passato alle spalle e una spavalderia che non sfigurerebbe nei vicoli della Derry di kinghiana memoria.
«Gli occhi di Leonardo sono mobili, guizzanti, inseguono pensieri troppo veloci. Lo osserva deglutire e rompere lo spazio magnetico che si interpone fra loro. La barriera del suono, infranta, fa il rumore di un bacio. Nina se l’era immaginato diverso, invece ha un’irruenza che la confonde. C’è qualcosa in lui, e in lei, che non conosce delicatezza, qualcosa di ruvido, di brutale persino. Qualcosa che si approssima alla fame.»
Cito King non a caso, in quanto l’incursione dell’ultraterreno è presente anche in questo terzo atto ma, come nei testi più iconici del Re, anche nelle storie di Lorenza spesso il male è solo una metafora per imbastire un discorso più ampio e decisamente “terreno” sul terrore e il disagio del diventare grandi, scoprirsi diversi, alieni in un corpo capace di continui stravolgimenti.
Nina, in primis, qui appare più sfuggente, ermetica: un’Alice silente che si muove in un paese le cui meraviglie hanno lasciato il posto a un deserto di corpi assenti e asettiche stanze d’ospedale in cui è meglio addentrarsi a passo lieve, con circospezione, strisciando lungo cunicoli notturni in cui la giovane, rimosso l’apparecchio acustico, si lascia guidare da un essere fumoso e violaceo che pare uscito da un incubo di Robert Lawrence Stine.
Ma c’è ancora spazio per la fiaba in un mondo che ha consegnato agli schermi i segreti e le paure più profonde dei nostri ragazzi?
Per chi scrive, ancor più dopo i fatti di questi ultimi giorni, l’idea che il male umano sia una fiamma fin troppo semplice da alimentare -seppur impossibile da domare, ancor meno comprendere- resta una certezza e il romanzo di Lorenza si riconferma come un’istantanea lucida, impietosa, a tratti destabilizzante, di quanto sia facile “varcare il confine”.
L’ultima ballata di Nina si muove al passo crescente di un’indagine mistica in cui la notte sembra costantemente sul punto di mangiarsi la flebile luce concessa e in poco meno di duecento pagine la storia germoglia, alimentata da una prosa sempre lucida, quadrata, estremamente sensoriale, in grado di bilanciare poesia e squallore con immagini cariche della fisicità tipica di un’odissea adolescenziale.
«Con un senso di vertigine si avvicina a lui, che resta immobile. E si toglie le scarpe. La risacca le bacia le dita con la sua lingua fredda, sebbene sia maggio. O forse è solo la sua pelle ad aver perso l’abitudine a ciò che è vivo, e da troppe settimane confonde il calore con ciò che anziché scaldare semplicemente soffoca.»
Nella necessità di lasciarsi consumare in quest’ultimo grido liberatorio, si percepisce lo spaesamento di una generazione lasciata in balia di se stessa e resta in bocca il sapore amaro di chi non è riuscito a far abbastanza: gli adulti, gli “assenti”, noi, tutti, sempre a crogiolarsi in quel “eppure sarebbe bastato così poco…”. Ben venga dunque questo scavo generazionale, che pone al cospetto della scomoda evidenza, che non concede assoluzione, smuove la terra, riporta in superficie domande sepolte, ossa spezzate.
Stefano Bonazzi
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Ballata per Nina
Lorenza Ghinelli
Marsilio
10,00 euro — 192 pagine