L’alchimista pestava con allucinato furore dentro in un mortaio sbeccato scorticandosi le dita. Da anni Maestro Lucci, ormai alla soglia delle settanta primavere, cercava instancabile di scoprire il segreto della porcellana cinese.
I manufatti di quella terra misteriosa e lontana erano mille volte più lucenti, resistenti, trasparenti, sottili e raffinati di quelli realizzati in qualsiasi altra parte del mondo. Godere di queste meraviglie era un segno di grande distinzione e ricchezza. Re e principi si contendevano ciotole, vasi e ogni altro oggetto in porcellana cinese ed erano disposti a pagare cifre favolose pur di avere il privilegio di possederne.
Non si contavano le persone, tra alchimisti, avventurieri, eruditi, artigiani, ladri, ruffiani e assassini, pronte a compiere le peggiori nefandezze per scoprire come i cinesi riuscissero a ottenere simili meraviglie, ma il segreto della porcellana rimaneva inviolato.
Con il miraggio di una ricchezza immensa, molti morirono, altri uccisero e taluni persero il senno.
L’alchimista aveva estorto, a caro prezzo, una informazione da un marinaio egiziano che si diceva certo che la porcellana d’oriente si ricavasse con l’aggiunta di gusci d’aragosta polverizzati.
Maestro Lucci si spezzava le unghie a forza di grattare e triturare carapaci.
Un sacco aperto del prodotto ottenuto faceva bella mostra di sé sullo scaffale in alto. Il solo vederlo procurava all’uomo dolori alla punta delle dita. Seguendo l’intuizione inseguita per un’intera notte, aveva polverizzato gusci d’uovo di varie specie di pennuti, dalla modesta gallina ai gabbiani, e aveva aggiunto il ricavato all’argilla, ma niente. Persino il vetro che si lavorava nelle isole intorno alla laguna era stato da lui aggiunto all’impasto e poi cotto nel forno, ma il risultato era ben lontano dalla porcellana cinese.
Stessa sorte ebbe l’uso della conchiglia detta porcellina, particolarmente lucente e liscia. Anche l’assonanza col nome, porcellina-porcellana, lasciava ben sperare. Un secchio cacciato sotto il bancone da lavoro ne era pieno zeppo. L’unica che aveva apprezzato l’impasto era la polvere che lo ricopriva per il timore che glielo sottraessero.
Per la millesima volta, l’alchimista sollevò un preziosissimo piatto di porcellana cinese a base bianca e disegni blu che raffigurava dei pescatori di carpe intenti al lavoro lungo la riva di un ruscello. Il manufatto non era certo di sua proprietà, ma del padrone che gli aveva commissionato l’incarico di scoprire il segreto dell’oro bianco, come era comunemente chiamata la porcellana. Anche se fosse campato mille anni, l’alchimista non avrebbe avuto il denaro per possedere un oggetto tanto prezioso.
Mise il piatto accanto a una candela per osservare la luce che attraversava l’oggetto. Tra le altre proprietà dell’oro bianco cinese, vi era anche quella d’essere traslucido. L’uomo di scienza non riusciva a capacitarsi di come potesse passare la luce attraverso un oggetto tanto duro, compatto e resistente.
Come ogni volta, l’alchimista diede un piccolo colpo al bordo del piatto con pollice per ascoltare il suono acuto che emetteva, simile a quello del cristallo. Con movimenti lenti, Maestro Lucci depositò il piatto cinese all’interno di un cofanetto rivestito di velluto, poi chiuse a chiave il coperchio.
Con piedi malfermi, tornò al mortaio e continuò a pestare con ostinazione gusci di lumaca di mare. Per sentito dire, il prodotto ottenuto andava mischiato all’urina.
Quando finì la polverizzazione, si sbottonò i pantaloni lisi e speranzoso pisciò nel mortaio. Ottenne solo uno sfrigolio della polvere e un puzzo terribile. Con furia, scagliò il mortaio contro il muro a raggiungere decine di suoi simili.
-“Maledetta porcellana e maledetto me”.
Anche per quel giorno il segreto della porcellana restò ben custodito.