Croce e delizia, per chi ne scrive, è stato l’impatto con questo libro. Conoscendo già Loris Zanatta, ordinario di Storia dell’America Latina presso l’Università di Bologna per diverse sue altre produzioni (tra cui una pregevole Storia dell’America Latina contemporanea), mi sono gettato convintamente nella lettura del saggio Il populismo gesuita.
L’inizio è stato quasi ottimo: la delineazione della storia delle prime missioni gesuite in America del Sud (quelle cinque/secentesche principiate nel Paraguay presso le popolazioni Guaranì) è stata condotta in maniera storicamente, documentalmente ineccepibile.
È però un dato di fatto che il legame con le moderne categorie politiche sia sempre più difficoltoso, a mano a mano che ci si allontani cronologicamente dalla nostra epoca. Fortunatamente, mi sento in dovere di aggiungere. Perché, varcato il confine del XX secolo, la situazione cambia.
Il primo personaggio contemporaneo col quale Zanatta si misura è Juan Domingo Perón, presidente argentino dal 1946 al 1955 e, per un ultimo brevissimo tratto, tra il 1973 e il 1974.
Per lui, così come per il successivo capo di stato citato nel titolo – quel Fidel Castro che non abbisogna di presentazione, sono spese moltissime parole, ma assai poche a favore.
Certamente da uno storico non ci si aspetta indulgenza ideologica nei confronti di nessuno, tutto ciò che è provato, documentato oggettivamente, scientificamente, va riportato, ancorché scabroso.
Sembra però che Zanatta abbia dedicato buona parte del proprio tempo a scovare e studiare documenti essenzialmente contro, facendo passare in secondo piano quelli a favore – e ne esistono, anche a firma di storici, analisti politici e quant’altro antiperonisti, anticastristi, antichavisti (non è riportato nel titolo, ma l’autore dà largo spazio anche alla trattazione della figura del venezuelano Hugo Chavez).
I termini prediletti dal nostro sono: organicismo, unanimismo e “santa povertà”. Perfettamente attinenti alla tematica trattata, su questo non ci piove, ma sempre considerati da un unico punto di vista, quasi mai da entrambi.
I primi due sono ovvia reazione all’individualismo elevato a valore assoluto prima dal protestantesimo e successivamente, in epoca contemporanea, dal liberalismo.
Le due visioni sono considerate in strettissimo collegamento (non sono io a dirlo e nemmeno Zanatta, bensì Max Weber nel 1905 con L’etica protestante e lo spirito del capitalismo): insomma, un ritorno in auge della comunità al posto dell’individuo a ogni costo!
Per quanto riguarda il concetto di “santa povertà” il discorso da fare sarebbe ben più ampio, ma non è mia intenzione aprire un dibattito teologico fra queste righe. Inoltre Loris Zanatta esplicita la sua posizione all’interno dell’ultimo paragrafo (“Gli ultimi non siano primi”) del capitolo quinto, intitolato Chavez (e la teologia della liberazione).
Leitmotiv di quest’ambito l’idea di base che il populismo gesuita delle missioni e, successivamente, i “populismi gesuiti” più propriamente politici dei secoli XX e XXI (peronismo, fidelismo, chavismo, ma anche sandinismo nicaraguense, alianzismo ecuadoregno, indigenismo boliviano e via dicendo) mai abbiano avuto l’intenzione reale di sollevare le classi inferiori della società dalla loro miseria, bensì quella di elevare la miseria a valore declassando il benestare a disvalore: il vero popolo (di Dio) deve essere povero, accontentarsi dello stretto necessario e mai farsi prendere dalla brama dell’egoismo accumulatorio.
Soprattutto, giammai cedere alle sirene dell’individualismo, ma accettare la paterna, illuminata guida di chi è stato preposto a esserlo, ovvero quelli che Zanatta chiama “Re cattolici” (d’importanza ancor maggiore quando sostenuti da “Regine del popolo”, quale fu Evita per Perón).
Riesce difficile concordare appieno, anche solo leggendo – su documenti di assoluta, comprovata oggettività – dei miglioramenti in campo politico-economico-sociale, di cui le classi fino ad allora più disagiate hanno beneficiato nei paesi latinoamericani presi in considerazione e governate dai sopracitati.
Chiaramente, Zanatta non dice il falso affermando che per questi “populisti gesuiti” la povertà è certo moralmente preferibile alla ricchezza: furono tutti educati in gioventù, e, preso il potere, circondati da (quando non gesuiti propriamente detti) teologi della liberazione. Il vento spirava in quella direzione – per il cattolicesimo liberale posto non ce n’era – e così, per certi versi, spira ancora.
Si sarà certamente capito che, nelle posizioni di fondo, non concordo propriamente con l’autore. Ma Zanatta, da storico navigato qual è, conscio degli arricciamenti di naso cui possono portare i suoi ragionamenti, lo dice esplicitamente al lettore fin dall’introduzione, in modo che si possa scegliere se continuare ad affrontare il testo o meno: «Posso sbagliare, disorientare, irritare; ma so di cosa parlo». Ed è la verità, gliene diamo atto.
Prima delle davvero ben fatte conclusioni, né esclusivamente autocompiacenti ma nemmeno fintamente disinteressate – della serie: “Scrivere questo libro non mi è costato poi molta fatica”, l’ultimo personaggio di cui Zanatta si occupa è il regnante pontefice, citato nel sottotitolo del saggio.
Dopo un rispettabilissimo esordio (“Papa Francesco non è un politico ma un religioso. Non governa uno Stato ma una Chiesa. Il suo magistero è morale e pastorale, non implica uno specifico regime politico, modello economico o ordine sociale”), l’autore ne tratta storia “professionale” e vicende umane sulla falsariga degli altri citati – che politici lo furono, e di professione.
La mia personale, modestissima idea, è che i parametri da usare sarebbero dovuti essere altri.
Per concludere, due parole sullo stile. Il saggio, piacevolissimo, scorre fluido come un romanzo. Narratore e addetto ai lavori, in Loris Zanatta trovano felice coabitazione.
Alberto de Marchi
Recensione al libro Il populismo gesuita. Perón, Fidel, Bergoglio di Loris Zanatta, Editori Laterza 2020, pagg. 140, € 16,00