Fragile come un infante è un romanzo ai suoi inizi. Ha bisogno di cure, di protezione. Il geloso riserbo tipico dello scrittore da poco al lavoro su una nuova storia si spiega appunto così: un nonnulla può rivelarsi fatale e troncare un’idea sul nascere. Il riserbo, per esempio, con cui Thorton Wilder scrisse alla sorella Isabel per preannunciarle che un nuovo libro era nell’aria: “Per la prossima settimana ho in serbo una notizia entusiasmante. Mi sposo? No. Torno a casa? No. Sto per avere un figlio. Fuochino”. La lettera reca la data del 10 marzo 1963, il che la colloca a circa nove mesi dalla fine del maggio precedente, ossia dal momento in cui Wilder salì a bordo di una decappottabile. L’intento: prendersi una lunga vacanza, fare “il perdigiorno per due anni” per dirla con le sue esatte parole. Un congedo temporaneo dal mondo di cravatte e conversazioni colte che normalmente frequentava. Finì in Arizona, in una cittadina nei pressi del Rio Grande che contava all’epoca poco più di diecimila anime. I paesaggi desertici di quelle parti erano un suo vecchio amore. Dopo nove mesi (il tempo giusto per dar forma a un concepito) trascorsi in un trilocale senza telefono né televisore, il pargolo pesava più o meno novanta pagine e somigliava a un “Piccole donne passato al vaglio di Dostoevskij”. Fu chiamato L’ottavo giorno. Ci vollero però altri quatto anni perché potesse camminare con le sue gambe. Vide infatti le stampe solo nel 1967 e, quanto a vendite, il suo successo fu immediato e incontestabile. Il giudizio della critica si rivelò invece più contrastato; pur guadagnandosi il National Book Award e molti e sperticati elogi, collezionò qualche stroncatura di rilievo. Il New Yorker lamentò l’assoluta mancanza di credibilità dei personaggi peraltro numerosissimi. Ancora più duro fu il New Republic: “Ecco (da un autore di buon senso) un libro insensato”. E vale la pena partire proprio da qui, da questi commenti negativi, ricordati da John Updike nella prefazione che accompagna la nuova edizione Castelvecchi. In effetti, un altro valido spunto potrebbe essere la breve sinossi presente nella bandella di questa pur pregevole riedizione, dove il libro viene spacciato per un “sorprendente romanzo noir”. Perché se l’insensatezza dell’opera è più che opinabile, non c’è dubbio alcuno che ascriverla al genere noir non trova ragione alcuna se non quella di adescare (e fatalmente deludere) lettori accidentali. Sgombriamo dunque il campo dagli equivoci. Il ramificato intreccio del romanzo mette sì sul piatto l’ingrediente irrinunciabile per un noir (una morte violenta), ma si dipana, o meglio si aggroviglia, secondo logiche aliene tanto al racconto poliziesco quanto a quello criminale. Agli inizi del secolo scorso, in una piccola centro minerario dell’Illinois meridionale, un uomo viene processato per avere ucciso con un colpo d’arma da fuoco un altro uomo, un amico assieme al quale si stava esercitando a sparare. Condannato a morte, l’omicida sfugge ai suoi custodi proprio mentre viene condotto sul luogo dell’esecuzione capitale. Il delitto e il suo mancato castigo, palesati subito e senza fronzoli nell’incipit, non preludono però a una caccia all’uomo né alla cronaca di un’evasione. Funzionano alla maniera di un peccato originale, e non in senso figurato bensì letterale. Si allungano come un’ombra sulle famiglie e i discendenti dei due uomini coinvolti, l’uccisore e l’ucciso, oscurandone i destini, inseguendoli nel tempo e nello spazio, sino in capo al mondo.
È dunque un romanzo di vendette e rancori, raccontato però dall’alto, a volo d’uccello, da una voce che sembra riferire i fatti per intercessione divina, abbandonandosi a divagazioni, a concioni d’ordine morale e filosofico, come parlasse da un pulpito. Nell’arco di poche di pagine il lettore viene ragguagliato sulle traversie geologiche della scena del delitto, sulle tribù di nativi che l’abitavano prima dell’arrivo dell’uomo bianco, su com’era la Terra in generale prima che comparisse la vita, sulla lenta e metodica evoluzione che dal periodo Precambriano ha consentito l’apparizione di mammiferi dotati di un sistema nervoso tanto complesso da domandarsi se il venire al mondo abbia un senso di qualche tipo. Le ragioni per cui un libro siffatto possa apparire insensato dovrebbero essere chiare a questo punto. La narrazione assume spesso toni distanti perché vuol essere antica e solenne. Del resto il titolo è abbastanza esplicito riguardo alle bibliche e universali ambizione dell’autore. Il Signore impiegò sei giorni per creare noi e ciò che ci circonda, dopodiché si concesse una giornata di riposo. L’ottavo giorno è dunque il tempo successivo all’opera di Dio, ossia il tempo in cui esiste il mondo. In effetti, oltre che non essere un noir, L’ottavo giorno è a stento un romanzo. Wilder lo pubblicò quando si approssimava al settantesimo compleanno, e nonostante ciò, nonostante stiamo parlando di un autore popolarissimo, può essere considerato un romanzo d’esordio. Il fatto è che le sue opere precedenti, inclusa la più nota, Il ponte di San Luis Rey, erano testi brevi, più novelle o racconti lunghi che romanzi veri e propri. Sin dagli inizi del suo percorso letterario, Wilder non aveva fatto mistero di vedere nel romanzo convenzionale, il romanzo borghese, una forma d’arte in declino. Era convinto che questo genere di narrativa sorpassato dalla Storia sarebbe stato presto definitivamente rimpiazzato da “un nuovo veicolo espressivo dominante, il teatro”, e in effetti al teatro si dedicò per lungo tempo scrivendo con successo molte pièce. La sua estraneità al narrativa romanzesca salta evidente qualora ne si affianchi la figura ai suoi coetanei. Wilder nacque nel 1897, come Faulkner. Aveva un anno meno di Fitzgerald e due più di Hemingway, ma tra lui e la cosiddetta generazione perduta la distanza si misurava in anni luce. Diversamente da molti scapestrati del suo tempo, non rinnegò mai i rigidi principi dell’America calvinista di cui era figlio. Come Fitzgerald e Hemingway trascorse vari anni in Europa, ma mai si atteggiò a espatriato; era pertanto un vero cosmopolita, cosa che non un vero americano non è mai. Fu non a caso definito “il solo scrittore americano contemporaneo letterato in senso europeo”, e tanto dovrebbe bastare per marcare la sua peculiarità. Parlava correntemente un numero imprecisato di lingue; era un’esegeta indefesso del Finnegans Wake; aveva un debole per la prosa di La Rochefoucauld e Saint-Simon; e pare che nel periodo in cui lavorò al suo primo romanzo “vero e proprio” si sia appassionato al Genji monogatari di Murasaki Shibuku, libro antico e sconfinato, come antico e sconfinato negli intenti e nei toni è appunto L’ottavo giorno. È probabile che lui per primo si sia sorpreso di essere infine giunto a scrivere un romanzo, quantunque alla sua maniera, ossia pervaso dal dubbioso senso della predestinazione tipico dei calvinisti, concepito come qualcosa a metà strada tra una bibbia e una tragedia greca, con una voce narrante in bilico tra dio e coro. Un libro unico nel suo genere. Non è un noir, non è insensato, ma è forse le due cose insieme, il grande noir di un mondo dal senso mai certo; il grande noir dell’ottavo giorno.