Esce proprio in questi giorni quello che forse si può ritenere l’evento editoriale di quest’anno: Low di Gherardo Bortolotti (Tic Edizioni, 208 pagine). Il libro riassume le sue opere precedenti, eccetto Storie del Pavimento, uscito sempre per Tic Edizioni nel 2018. Le raccolte, ormai introvabili, presenti in Low sono: Tecniche di basso livello (2009), Senza paragone (2014) e Quando arrivarono gli alieni (2016).
Bortolotti è un autore che emerge dal Web. La sua scrittura prende forma e inizia a cristallizzarsi nella Rete verso la metà degli Anni Zero. Al suo impegno dobbiamo il ponte con alcune frange delle sperimentazioni americane, che condivide e in parte traduce, come the new sentence di Ron Silliman, googlism e l’esperienza flarf a cui fa capo K. Silem Mohammad. Con la crew di GAMMM, partecipa come autore all’antologia che ha avuto più ricadute ed emulazioni sulla nuova poesia degli anni Dieci: Prosa in prosa, uscito per Le Lettere, collana ff, nel 2009 e ora fuori stampa.
Rispetto agli altri autori che frequentano sia la poesia che la prosa non narrativa, Bortolotti scrive solo in prosa, e ne fa un marchio autoriale riconoscibile, costante, che persegue in tutte le sue opere. Non gli interessa il verso, lo spazio bianco tipografico che ne definisce la natura di primo acchito, eppure l’uso dei parallelismi, le procedure anaforiche, richiamano una dimensione poetica primitiva. Per questo (non solo – ma anche) è incluso sia in Poeti degli anni Zero, a cura di Vincenzo Ostuni (2011) e contemporaneamente, a Narratori degli Anni Zero, curato da Andrea Cortellessa (2014). Unico e sorprendente caso.
Le micronarrazioni presenti nelle tre raccolte si esauriscono in poche righe, senza però chiudersi mai, in un procedere a spirale. Il tono è sommesso, malinconico, stralunato, sedato; i suoi personaggi sono agiti dagli algoritmi dell’esistenza quotidiana, di bipedi nell’Occidente industrializzato nel tardo capitalismo di questi ultimi vent’anni, condizione a cui non si oppongono.
La lotta è un concetto assente, diluito, fino a scemare completamente, come se a popolare il suo universo fossero dei Bartleby positivi e innocui, immersi nella socialità. In Tecniche, l’alter ego di Bortolotti, bgmole, risente del debito (alquanto esplicito) con Qfwfq delle Cosmocomiche, ma a differenza del personaggio di Calvino, come scrive Cortellessa: “è imprigionato nel nostro medesimo mondo sublunare, percorso da malinconie post-storiche dagli emblemi stranianti e riconoscibili”. La polvere in ufficio, le luci delle zone industriali o le carte e gli oggetti non identificati che troviamo in tasca, hanno lo stesso peso narrativo dei sentimenti; la realtà si rivela nel suo aspetto particellare e Bortolotti ne cattura e rende ogni emanazione, con disincanto.
Il corso della quotidianità di ognuno, la sua epica al ribasso, l’andatura circolare della prosa dove al posto dei versi si hanno dei veri e propri blocchi segnati da una cadenza se non irregolare – riconoscibile poiché ciclica, costituiscono a prima vista l’impronta prosodica di Bortolotti. Il suo sguardo sviscera non solo gli spazi interstiziali del paesaggio attorno, ma i momenti interstiziali dell’esistenza in cui ognuno si può riconoscere, e tutto il suo lavoro è un’epifania, seppure triste e malinconica, degli interstizi.
Leggendolo e rileggendolo, in questi anni, ho provato la stessa commozione di quando ho incontrato Le Cose di Perec (è l’autore italiano oggi più vicino a Perec), sensazioni simili all’incontro con Caro vecchio neon, uno dei racconti lunghi più significativi di Wallace.
Bortolotti riesce a combinare delle nano-storie perfette, facendo fuori la trama, pure nel suo libro più spiccatamente narrativo: Quando arrivarono gli alieni. La sua opera purtroppo rimane isolata e appannaggio del mondo poetico, quando invece agisce sulla prosa, sulla micronarrazione, ma si sa, spesso i romanzieri sono sordi di fronte alle novità letterarie italiane. La ricezione critica di questo autore atipico ne distorce spesso la fruizione letteraria.
Pare di essere di fronte a uno scrittore “sperimentale” (vero!), difficile (falso!), freddo (falso!), e la lettura della sua opera è diventata materiale per gli addetti ai lavori. Ma questo è un peccato. Low è un libro potenzialmente accessibile a chiunque dei cosiddetti “lettori forti”, proprio perché in ogni pagina, ogni blocco di prosa, riflette l’esistenza di ognuno di noi, fuori dalla retorica abusata della prosa giornalistica. E lo fa con una grazia stilistica rara, compatta, a tratti commovente.
Julian Zhara