Regista cinematografico, teatrale e lirico, Luchino Visconti, nato a Milano il 2 novembre 1906, è stato il vero iniziatore del neorealismo italiano con Ossessione del 1943, tratto dal celebre romanzo americano Il postino suona sempre due volte di James M. Cain, dove, spostando l’originaria ambientazione di San Francisco nella bassa Padana, seppe esaltare magistralmente il fascino torbido degli amanti fedifraghi Clara Calamai e Massimo Girotti. Sul filone neorealista seguiranno La terra trema (1948), interamente girato con attori non protagonisti per raccontare il dramma della famiglia dei pescatori Valastro, palesemente ispirata ai Malavoglia di Verga, Bellissima (1951), con una strepitosa Anna Magnani nel ruolo di una madre ossessionata dal sogno di riscattare una proletaria esistenza, proiettando a tutti i costi la piccola e inadeguata figlia nel luccicante e cinico mondo dello spettacolo, e infine quel Rocco e i suoi fratelli (1960), ritenuto da molti il suo assoluto capolavoro, anche per quella Milano raffigurata così ostile da distruggere quasi l’intera famiglia lucana dei fratelli Parondi, e ispirato al romanzo Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori.
Ma prima di Rocco, pesantemente osteggiato dalle censure andreottiane dell’epoca, Visconti già nel 1954 con Senso, aveva dato inizio alla sua personale rivisitazione storica del Risorgimento italiano, ribadita dal sontuoso Il Gattopardo del 1963, tra i pochissimi film all’altezza di un libro importante. Dopo avere girato quasi interamente in teatro di posa Le notti bianche con Maria Schell e Marcello Mastroianni, il ritorno al bianco e nero e a una fase più intimista gli farà vincere nel 1965 un inaspettato Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia con il controverso Vaghe stelle dell’Orsa…, dove inserisce nella magia di Volterra i volti bellissimi e poco etruschi di Jean Sorel e Claudia Cardinale.
Due anni dopo Visconti passerà all’ultima fase, quella del cosiddetto “decadentismo”, dove si colloca la trilogia tedesca con quelli che possono definirsi ancora oggi tre veri e propri capolavori, La caduta degli dei (1969), Morte e Venezia (1971) e Ludwig (1973). Gli ultimi due film di estetico compiacimento, e forse meno ispirati, saranno Gruppo di famiglia in un interno (1974) e il dannunziano L’innocente, uscito postumo dopo la sua morte, avvenuta il 17 marzo del 1976, grazie all’impegno della sua musa Suso Cecchi D’Amico.
Allievo di Jean Renoir, comunista convinto tanto da essere definito il “conte rosso”, maestro di futuri registi come Franco Rosi e Franco Zeffirelli, eclettico come pochi altri (celebri i suoi allestimenti al Teatro Eliseo di testi di Čechov e Cocteau), scopritore di alcuni tra i più grandi attori dell’epoca come Marcello Mastroianni, Paolo Stoppa, Alain Delon, Romy Schneider, Claudia Cardinale, Lucia Bosè, Helmut Berger, Annie Girardot, per ricordarne solo alcuni, e valorizzatore di un attore americano in disarmo come Burt Lancaster, trasformato sul set nel più autentico dei principi siciliani, Visconti fu anche il mentore di Maria Callas che contribuì a trasformare da sgraziato soprano nella più straordinaria attrice lirica di insuperato fascino e stile. Ritenuto da sempre il maestro assoluto del gusto, curava personalmente ogni dettaglio scenografico, Visconti è stato anche un grande sperimentatore innovativo. Prima della morte chiese che sulla propria tomba venisse impressa la frase “Ha amato Verdi, Proust e Čechov”, i suoi tre grandi amori. Era ricco, rampollo dei Visconti di Modrone e mamma della dinastia degli Erba, avrebbe potuto godersi gli agi e invece ha combattuto la Resistenza andando in Francia ad imparare il mestiere da Renoir, prima di inventare il neorealismo, e quindi innalzare ad arte cinema, teatro e opera, al punto che non c’è qualcosa che abbia fatto che ancora oggi non meriti di essere ricordata.
Dovendo scegliere tre film imperdibili suggerisco Ossessione, perché ha cambiato il modo di fare cinema in Italia (si veniva dai Telefoni bianchi e Blasetti), aprendo la strada a Rossellini e De Sica, Rocco e i suoi fratelli, per lo straordinario affresco sul dramma degli emigrati meridionali nella Milano del boom economico anni ’60 con un impatto che non ha più avuto eguali e La caduta degli dei, immensa saga, vagamente ispirata a I Buddenbrook di Thomas Mann, di gran lunga il più bel film sull’ascesa del nazismo, dove non manca di affiancare, alla grande tragedia storica, una vena di notevole erotismo.
Davide Steccanella
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