Sono seduta su questa panchina da non so quanto tempo. Fa freddo, ma a Emma sembra non importare. Certo, non sta mai ferma. Corre sul prato ghiacciato, saltella nel fortino, si slancia in altalena. Sembra felice. Ma lo sarà davvero? Quanto tempo ci vorrà perché cominci ad accusare il colpo? Perché fiuti l’amarezza, dietro ai miei sorrisi. E la paura, dietro alla mia ostentata tranquillità.
«Tesoro, ancora cinque minuti e poi andiamo!»
Lei fa finta di non sentirmi e continua a giocare. So per esperienza che l’unico modo per portarla via sarà quello di fare la voce grossa. Suo padre usa metodi più spicci.
Guardo l’ora, sono le cinque e mezzo. Sta per diventare buio e il parco piano piano si svuota. Qualche papà, uscito dall’ufficio, viene a riprendersi la famiglia. Vedo abbracci, sorrisi. Sento tanta gioia attorno a me. Gioia che non mi riguarda. Anche se le vie sono piene di luminarie, le vetrine di renne e i cuori di buoni propositi. Anche se è quasi Natale, io mi sento sull’orlo dell’inferno.
Percepisco la sua presenza di colpo. Un attimo prima lei non c’era e adesso è qui, seduta accanto a me, sulla panchina. Mi volto e intercetto il suo sguardo: cupo, desolato, colmo di un dolore profondo. Guardo lei e mi sembra di vedere me stessa.
«Lui ti picchia?» le chiedo.
Lei annuisce, grave.
«Avete figli?» le domando.
Lei annuisce ancora. Poi si prende il viso fra le mani e comincia a piangere. È un pianto sommesso, trattenuto. Il pianto di una persona che si espone a fatica. Che preferisce attraversare la vita in punta di piedi. Per non dare fastidio. Ma, soprattutto, per non sfidare il suo aguzzino.
Mi avvicino a lei. Noto che indossa un giaccone verde bosco. Ne avevo uno uguale, anni fa. Poi lui decise che era da zoccola e me lo buttò nella spazzatura. Neanche vedendolo addosso a lei, riesco a capire perché lui lo odiasse così tanto. In realtà, il problema non era il giaccone. Come il problema non era, non è mai stato, il mio collega Giancarlo. Un banale ritardo. Un soprammobile fuori posto. Il problema ero, sono sempre stata, io. Solo io.
Sposto lo sguardo verso l’area gioco. Emma è con un’altra bambina, che può essere sua coetanea. Si assomigliano anche. Da questa distanza, potrebbero anche sembrare sorelle.
«Ha perso il lavoro, è nervoso. E anche io ho le mie colpe. Certe cose non mi riescono bene. Spendo sempre troppi soldi. Non sono una buona madre» dice la donna. Nella penombra del lampione che si è acceso a poca distanza da noi, non riesco a distinguere i suoi lineamenti. Dimostra la mia età. Nascoste fra sciarpa e cappello, intravedo ciocche di capelli scuri. Anche i miei erano così, prima che lui mi obbligasse a decolorarli.
Un crampo di rabbia mi artiglia lo stomaco. Vorrei dirle di lasciarlo. Perché un uomo violento non ha giustificazioni. Ma taccio. Chi sono io per parlare così? Proprio io, che sto subendo esattamente lo stesso, da anni.
Guardo Emma e penso: alzerà mai le mani su di lei? E se le facesse anche di peggio? Se un giorno bussassero a casa nostra i servizi sociali e me la portassero via?
«Ma ci sono anche giorni buoni – continua la donna, senza guardarmi – e allora è gentile, mi chiede scusa, dice che non lo farà più».
«Non cambierà mai. Nessuno di loro cambia mai. E nessuna di noi merita di essere trattata in questo modo!» esclamo, alzando la voce. Perché le situazioni degli altri ci sono così chiare e le nostre invece no? Perché sappiamo dare ottimi consigli, ma pessimi esempi?
Guardo Emma, che ora gioca da sola. Mi giro. La panchina è vuota. Dov’è finita la donna?
Emma corre verso di me. «Mamma, andiamo?»
Ci incamminiamo lungo il vialetto, per mano. Il contatto con la sua piccola manina soda mi dà conforto. E intanto mi chiedo chi fosse quella donna. E come abbia fatto a comparire e scomparire. Di colpo.
Poi la riposta mi è chiara. È impossibile. È l’unica possibilità.
«Mamma, dove passiamo il Natale?» mi chiede Emma.
“Ma a casa nostra, no? Con papà” sarebbe la risposta giusta, se le cose andassero bene, fra noi. Se lui non fosse il violento che è che. Se non mi picchiasse, umiliasse, mortificasse.
«A casa dei nonni» dico. Penso alle valigie da fare, alle risposte da dare, al coraggio da trovare.
Ma lo farò. Lo devo a mia figlia. Alla donna del parco. A me stessa.