Un libro piccolo, poco più di cento pagine, copertina scura, nella bandella una sinossi stringata in poche righe. Un protagonista senza nome incide i corpi di morti suicidi per immergersi nella loro coscienza e, attraverso la ferita, tornare indietro nel tempo per un ultimo disperato tentativo prima che l’atto estremo si compia. La trama del romanzo sta tutta qui.
Sembra una cosa fragile, leggera, un po’ come la materia di cui è fatto il libro stesso, inizi a leggerlo e non sai bene cosa aspettarti. È un salto nel vuoto. Il salto, il vuoto, l’idea di lasciarsi andare verso qualcosa di sconosciuto, l’altezza, l’accettazione, la vertigine della scelta. Sono temi che torneranno poi, ciclicamente, lungo tutta una narrazione che procede come un conto alla rovescia. Sei consapevole di esserti imbattuto in qualcosa di nuovo, diverso, lo stimolo a procedere è fortissimo e in poche pagine ti ritrovi immerso (letteralmente) in un mondo dai contorni sbiaditi, cieli grigi, appartamenti asfittici, palazzi dalle vetrate tutte uguali, silenziose biblioteche spalancate sopra un abisso di apatia e sirene: il tutto affrescato da una prosa raffinata e consapevole. La vicenda si muove attraverso un fraseggio ruvido ma elegantissimo, descrizioni spolpate di ogni superficialità, dialoghi lampo, tutto ciò che accade lungo questa via crucis dell’onirico ci appare fin da subito ripulito, minimale, pervaso da un senso di esausta decadenza. Esausta, appunto, come esausti sono i corpi dei “clienti” che il protagonista dovrà incidere e in cui immergersi, per entrare nei loro mondi e convincerli, con un ultimo raptus salvifico, a fare marcia indietro. Non c’è altro nella routine dell’incisore. La sua è una vita dedita allo svolgimento di quell’unica speciale professione, dove le pause tra un cliente e l’altro si riducono a un limbo di preparazione psicologica in vista del prossimo tentativo di salvataggio.
L’autore è abile nel tenere lontani i facili moralismi, calandoci nella sua opera con lo stesso distacco controllato dell’incisore, non c’è volontà di insegnare, non ci sono dogmatismi da apprendere, soltanto una sguardo via via più ampio sui propri affetti e sul significato dello stare al mondo, in un’epoca di forzata felicità in cui chi soffre è costretto a un continuo atto di dissimulazione del proprio sentire. Ed è proprio in questo incedere costante che il romanzo di Lucio Leone si rivela come una sorta di matrioska del dolore. Il tema della depressione e del suicidio sono maneggiati attraverso la materia onirica con un rispetto per la tematica che a tratti commuove e in altri sconvolge, tanta è la consapevolezza e magnificenza stilistica dedicata al testo. Il narratore si fa portavoce di un dolore intimo seppur corale, alternando gli eventi di incisione a riflessioni pseudo-filosofiche e quesiti morali, creando un sottotesto stratificato di metafore e incursioni letterarie (da Pavese a Virginia Woolf) più o meno esplicite. Perché le ferite dei personaggi chiamati in causa sono squarci aperti su un mondo che non possiamo giudicare, astri lontani che dovremmo limitarci ad ammirare con lo stesso stupore infantile con cui si osserverebbe l’esplosione di una supernova. O la crescita di un albero. Quello stesso albero di pietra che cresce nell’appartamento dell’incisore, un corpo alla volta, fino a sfondare il soffitto. Ecco, dunque, questo libro è un po’ simile a quell’albero. Qualcosa che cresce lentamente, invogliando a centellinare le pagine, a soppesare ogni frase, per poi esplodere in un finale cangiante e rivelatorio, in cui la distanza tra quell’asfalto sporco di neve sotto il balcone di casa e lo spazio più profondo, si assottiglia nello spazio di un abbraccio.
Stefano Bonazzi