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ANTEPRIMA Luigi Nacci, Trieste selvatica

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È un poeta, un viandante, un equilibrista che cammina sul filo, o meglio, sul confine di una terra, la sua, che ha nome Trieste; ma non dei caffè, di Miramare e di Sissi, della Barcolana, del suo volto mondano lustrato dal vento intende parlarci Luigi Nacci, piuttosto di quella selvatica che ha scelto come titolo del suo ultimo libro (Trieste selvatica, Editori Laterza, 2019, pp. 208, euro 14), per indurci a ripiegare con lui in vicoli e locali percorsi da uomini al limite, in quel bordo marginale che insidia il centro e, per vie traverse, sempre vi si insinua. A Trieste le case si spostano, vuoi per “cercare una patria o qualcosa che le assomigli”, vuoi per la bora: “ma nessun meteorologo ti dirà, caro lettore, che la bora soffia dalle boccacce storpie delle streghe che vivono in fondo alle grotte carsiche, soprattutto nessuno ti dirà che la bora è il dio che ci ricorda, con la sua turbolenza imprevedibile, che i confini esistono solo sulla carta”, perché sulla carta sono state disegnate e divise, quelle terre.

Partendo dalla città e dai luoghi meno visibili e visitati, dalle osterie, “dove gli artisti si sono mischiati a pellegrini, operai, muratori, scaricatori di porto, e a spettri di soldati senza più fronte” (le varie identità- oltre a quelle etniche- che la compongono) e passando per il ricordo di scrittori e poeti (come Scipio Slataper, Ennio Emili, Fulvio Tomizza, Ivo Andrić, Anita Pittoni, Paolo Universo e tanti altri- per non dire di Svevo, Joyce, Rilke), facendo avanti e indietro nella storia, Luigi Nacci ci porta a varcare le porte della città e inoltrarci “là dove comincia il bosco e i cinghiali scavano con foga rivoltando le zolle, i cartelli del vecchio confine arrugginiscono stritolati dall’edera e dalla vitalba”.

Zaino in spalla e scarponi anche in città- perché la pietra è ovunque e scivolare è un attimo-, Luigi Nacci ci invita a fare, passo passo, questo cammino, alla scoperta del volto disturbante della città, che se è dispensatrice di angoscia (per Saba) o malefica (per Bobi Bazlen), è anche la città di Franco Basaglia e delle porte aperte dei manicomi. Ma oltre a questo è terra di incroci e di natura, il labirinto del Carso dove ogni triestino dovrebbe dirigere il piede per ritrovare origine, chiave “per comprendere la frontiera” cioè la vera libertà di essere viandante.

Già, il Carso…”Il Carso è Trieste ma è più di Trieste, è il suo apparato scheletrico e muscolare, polpacci tesi, pelle abrasa, unghie sporche. La città di sotto, quella sul mare, è tutta testa, è ferma. La città di sopra è un corpo che si dimena”, tra fragranze mediterranee e Novecento tragico. E poi l’Istria, il crogiolo, perché Trieste è una porta che conduce anche lì: in Ciceria.

Un consiglio: prendetevi la briga di andare in libreria, il 2 maggio, e da lì a Trieste, seguendo le sapienti e luminose parole di Luigi Nacci.

Rossella Pretto

Qui sotto un breve estratto.

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Dentro ogni triestino c’è un pezzo di muschio, di corteccia, di carpino nero intrisa di umidità, un residuo di boscaglia che ci fa diffidare della trattative condotte nei saloni di rappresentanza, delle ideologie costruite in astratto, delle verità date per scontate nei centri di potere, ma anche del talento e della fortuna altrui, di ciò che piace a troppe persone, del vicino di casa. Dentro ciascuno di noi si cela un boscaiolo, una spia, un kapò, un soldato che ha sbagliato fronte, rannicchiato in un antro in attesa che la guerra finisca, diffidente di chiunque arriverà, con qualsiasi divisa arriverà. Siamo orsi. Selvatici, anche senza stare nella selva. Laterali, strabici, borderline. […]

Vorrei che ti convincessi che la straordinaria forza di questo luogo è data dalla sua natura ibrida. Intitoliamo per primi al mondo un teatro a Giuseppe Verdi, andiamo a conversare di lirica nei caffè, compriamo e leggiamo più libri di tutti, andiamo a teatro, organizziamo festival cinematografici tutto l’anno, siamo la città della scienza e delle vele, tutto ciò ha un senso a patto che non ci vergogniamo di essere ciò che abbiamo sempre fatto finta di non essere: spietati tiratori di balestra, ospitalieri di sozzi pellegrini, ubriaconi, profumi, assassini, boscaioli, contadini senza terra, contrabbandieri, pescatori col mal di mare, poeti maledetti, gente dalla doppia vita, dalla faccia tripla, dalle molte coscienze, sporche quanto basta, attaccati al denaro, narcisisti cronici, grafomani incurabili, borghesi dai modi burberi, pastori che si imborghesiscono, esseri con molte ferite non rimarginate, molto sangue che ci cola lungo le gambe, che si riversa a terra, che si infiltra tra i calcari, raggiunge i misteriosi rami dei fiumi sotterranei, raggiunge il mare e torna, trasformato, alle rive che stanno davanti a te. Non ci sono barbari al di là del confine, non c’è confine, noi siamo il confine, noi siamo i barbari.

© Editori Laterza, 2019

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