Benvenuto su Satisfiction   Click to listen highlighted text! Benvenuto su Satisfiction

Luigi Zoja anteprima. Dialoghi sul male. Tre storie

Home / Anteprime / Luigi Zoja anteprima. Dialoghi sul male. Tre storie

Dialoghi sul male di Luigi Zoja, pubblicato da Bollati Boringhieri, è in libreria da qualche giorno. Non un saggio, ma stavolta un libro di narrativa scritto dall’ illustre psicanalista junghiano, sociologo e prolifico saggista, tradotto nel mondo, già presidente della IAAP, International Association for Analytical Psychology, e vincitore, per due volte, nel 2002 e 2008, del Gradiva Award della National Association for the Advancement of Psychoanalysis, per la saggistica psicologica. Tre storie, tre continenti, tre donne le protagoniste, accumunate dall’ incontro con il “male” e con la psicoanalisi. Ritratti dolorosi che squarciano tanto la storia individuale che quella collettiva. Interrogativi esistenziali si rivelano scosse elettriche delle vicende di Wang, Sophie e Telma, gettate nel ribollire di eventi sanguinari. E come collanti la psicologia, che “non descrive teorie, ma uomini: e degli uomini non si parla mai abbastanza”, e l’analisi che è in fondo “l’unico dialogo senza trucchi”. Ricordi chiesti e raccontati “con gioia perchè voglio ricambiare; con dolore perché nessuno vuole ritornare all’inferno”. L’ Inferno in Cina, detta “Zhongguò” ossia il paese del centro, al tempo di “quell’inguarita piaga chiamata Rivoluzione Culturale; a Zurigo negli anni di piombo e a Buenos Aires, ripercorrendo la dittatura militare e “il vuoto luogo delle origini”. Un non assumere posizioni in un silenzio assordante, oppure un prenderle in modo estremo, smarrendo quel controllo abissale che separa il bene dal male. L’importanza è conoscere quel male, quel buio che è in noi per destarlo e metterlo al muro, affinchè non possa nuotare nel mare/male collettivo. Una riflessione profonda, necessaria che coinvolge il lettore, lo cura e lo mette in ascolto del suo stesso male, sino a poter tornare un giorno “a piangere sulla sua poltrona invece che su questa panchina”.

Claudia Caramaschi

#

2.

I fatti che vi riferisco avvennero nella tarda estate del 1966. A Pechino faceva ancora molto caldo. Attendevamo l’inizio della riunione indetta da un comitato di ragazze più grandi. Proclami affissi dappertutto dicevano che, da quel giorno, la scuola sarebbe stata gestita direttamente dalle Guardie Rosse.

Fino a quel momento, ognuno dei due gruppi che si fronteggiavano aveva dato per scontato che avrebbe condotto l’assemblea: le insegnanti per abitudine, le scolare per entusiasmo rivoluzionario. Prima dell’orario fissato, la grande sala era già piena. La semplice forza del numero – una risorsa a cui nessuno sembrava aver pensato fino allora – rendeva chiaro che il comando era passato nelle mani delle studentesse. Le più attive, autoproclamatesi rappresentanti del Presidente Mao, si accalcavano sulla pedana. Le più tiepide le lasciavano fare. Le porte vennero chiuse; una catena di braccia fu interposta tra le uscite e le insegnanti, perché capissero che avrebbero potuto andarsene solo chiedendo il permesso alle Guardie.

Litzhou, la madre di Wang, si accorse che le mancava il respiro; ma non avrebbe saputo dire se per l’affollamento o perché si sentiva già imprigionata. Aveva gli occhi rossi, non aveva dormito. Visitavo spesso Wang: ultimamente sui muri di casa loro erano apparsi dei dazebao che la denunciavano come insegnante controrivoluzionaria. Promettevano di sottoporla alla giustizia popolare. Litzhou si limitava a fingere di non vederli. La figlia, invece, aveva esibito qualche occhiata di approvazione. Come conseguenza, stava molto attenta a non uscire insieme alla madre: e questa la lasciava fare, probabilmente per coinvolgerla il meno possibile nei propri guai.

Nell’assemblea, Yunshi era la più autorevole fra le Guardie Rosse. Alta, orgogliosa, alzò il braccio destro impugnando un bastone, per tagliare lo spazio separando il bene dal male e chiedere un silenzio assoluto in cui far rotolare i messaggi del Grande Timoniere. Era consapevole della propria bellezza altera; e sapeva – non immaginava, sapeva – che anche le altre, anche le invidiose, in quel momento la trovavano bellissima, con la pelle accesa dalla eccitazione rivoluzionaria. A ogni frase, la sua voce iniziava sommessa; gradualmente, si sollevava dalla valle fino a un picco. Concludeva urlando, e terminava solo quando non aveva più fiato.

«Compagne studentesse, siamo qui nel nome e per implicito incarico del Presidente Mao, delle masse rivoluzionarie e del Partito che le conduce. Siamo qui perché l’incoraggiamento del Presidente ci conferisce non la possibilità, ma il dovere di controllare che la scuola svolga il suo compito: preparare chi studia a un futuro nuovo e più giusto.

Noi già sappiamo che questo non avviene. Ma siamo magnanimi, come il Presidente Mao ci ha insegnato
a essere. Quindi non applicheremo subito le misure correttive e punitive al corpo insegnanti, evidentemente coinvolto in un complotto reazionario per riportare al potere la borghesia. Noi interrogheremo le insegnanti; le puniremo solo sulla base di quanto diranno: saranno loro stesse a descrivere i loro errori e pronunciare le loro condanne. Litzhou!»

L’irreparabile era accaduto. Fino al giorno prima, Litzhou avrebbe potuto immaginare qualunque cambiamento nei rapporti di potere della società: ma non che millenni di deferenza confuciana svanissero in un istante e un’insegnante venisse apostrofata da un’allieva col solo nome, senza appellativi rispettosi, gridando un ordine. Scrollò via i pensieri, cercò di guardare Yunshi, ma non troppo direttamente; tentava di stabilire una giusta distanza, come si fa con un animale feroce. La ragazza riprese:

«Litzhou! Hai insegnato a lungo letteratura cinese e ora sei responsabile delle materie letterarie per tutta la scuola. Tra l’altro, sei giovane per questo incarico: cosa che già costituisce un’indiretta, eppure chiara prova di come tu sia stata favorita non dai tuoi meriti ma da poteri reazionari nascosti. Nei programmi hai sprecato il tempo con i classici rivolti al passato. Il tempo» concluse Yunshi gridando, «che non appartiene a te, né alla tua classe di studentesse, ma alla nazione, al popolo, a quelli che sanguinano nello sfruttamento!»

Litzhou commentò a voce bassa e senza alzare lo sguardo. «Le direttive includono una conoscenza dei classici fra gli insegnamenti utili alla nuova società».

Yunshi abbassò il tono, sussurrando piano il disprezzo. «Stai già mostrando il tuo spirito controrivoluzionario. Prima di tutto, non ti ho ancora chiesto di parlare: la gestione di questa assemblea è compito degli studenti, avanguardia della Rivoluzione Culturale. E poi non ho detto che sia una colpa insegnare qualunque classico. Ma è controrivoluzionario dare valore al passato. Esistono i classici che hanno radici nel futuro: sono già nati» e qui di nuovo gridava, «ma ricevono la loro autorità dall’avvenire! Un paradosso che capiremo domani, riguardante soprattutto gli scritti del Presidente Mao. Non mi pare che tu ti sia distinta facendone letture pubbliche. Anzi, sappiamo che neppure posavi davanti a te, sotto gli occhi degli studenti, una copia del Libretto Rosso, come dovrebbe fare ogni rivoluzionario, e a maggior ragione chi educa al futuro le nuove generazioni. Dato che tutta la scuola ci è testimone, non perdiamo tempo. Rispondi semplicemente: fra le materie insegnate, quante volte hai letto brani del Libretto Rosso? E quando lo hai, semplicemente, portato in classe e mostrato agli studenti?»

«Nessuna. Ma come sai attraversiamo un periodo particolare: c’è stata molta confusione, siamo indietro con i programmi, quindi abbiamo avuto altre priorità».

«Bene. In questo modo hai già ammesso che attribuisci bassa priorità agli scritti del Presidente Mao. E hai chiamato “confusione” quel poco di attività riorganizzative che gli studenti sono riusciti a imporre a voi, cricca reazionaria di insegnanti».

A questo punto Yunshi smise di guardare Litzhou e si rivolse sarcastica all’assemblea: «Visto che almeno concordiamo con la controrivoluzionaria sul rischio che a scuola si perda tempo, propongo di passare subito alle risoluzioni. Per prima cosa interpello le altre insegnanti: alzi la mano chi pensa, come Litzhou, che andrebbero insegnati solo i classici rivolti al passato e nulla del Presidente Mao». Si udì qualche borbottio: ma, dato il modo in cui era stata formulata la domanda, nessuna mano si sentì autorizzata ad alzarsi. «Ora» riprese subito Yunshi, baldanzosa e preoccupata di continuare senza soste il suo galoppo, «alzi la mano fra voi studenti chi ritiene di avere già elementi per infliggere alle insegnanti una punizione collettiva per il clima antirivoluzionario in cui si crogiolano. Notate che non propongo affatto pene severe: solo un piccolo rituale che smussi la loro arroganza. Suggerisco che sfilino davanti a noi studentesse con la testa bassa: e che, visto che la vera educazione rivoluzionaria è collettiva, anche l’atto rieducativo lo sia. Tutte contribuiscano in parti uguali all’ammaestramento della cricca reazionaria chiamata “corpo insegnante”. Ognuna griderà la propria indignazione con parole di giusto disprezzo; e ognuna colpirà ogni insegnante con un colpo rieducativo. Usate un bastone, un righello, un ombrello. Se non li avete, non preoccupatevi: sfilatevi una scarpa e picchiate con la suola. Con la suola delle scarpe, in strada, noi schiacciamo continuamente insetti o merde di animali. Quindi, anche se vi pare una punizione troppo gentile per i loro crimini, un colpo di scarpa può essere un castigo particolarmente significativo. Mentre lo fate, dovete pensare: non sto colpendo un’insegnante che merita rispetto, sto schiacciando un insetto o un escremento di cane. I vostri colpi non devono essere mortali, ma neppure indolori: se vuoi scacciare un cane devi farlo con un bastone o lanciandogli una pietra, avete mai provato ad allontanare un randagio con un fiore?»

3.

La sciocca risata di risposta segnò la fine del primo tempo, destinato solo alle parole. Come Mosè di fronte alle acque del Mar Rosso, Yunshi avanzò tra la folla di ragazze: teneva il bastone dritto davanti a sé, facendolo oscillare a destra e a sinistra. Il gruppo si divise docilmente. Anche le studentesse più piccole cominciarono a gridare scalmanate: le insegnanti dovevano sfilare a testa bassa lungo il corridoio che si era formato, fino a uscire dalla sala!

«Silenzio!» urlò allora Yunshi, desiderosa di non perdere il controllo. «Rinunciamo al voto, le vostre grida indicano già un’approvazione per unanimità rivoluzionaria. Ma volete per caso lasciar andare le insegnanti quando la rieducazione è appena iniziata, e non abbiamo ancora chiarito come è composta la cricca reazionaria? Così non va. Dovranno camminare fino al cortile. Quelle di noi che non sono riuscite a stare nelle prime file e impartire la punizione, potranno seguirle lì e dare a ognuna la bastonata che merita. Dal cortile faranno dietrofront e torneranno nella sala: così, chi ha ricevuto colpi sulla destra li prenderà a sinistra, e viceversa. Una educazione rivoluzionaria è una educazione completa, non un lavoro pigro e mal fatto come quelli dei capitalisti: è lo spirito di solidarietà fra noi a insegnarcelo».

Ricordo che, a questo punto, dalle studentesse si alzò un grido di entusiasmo. Anche se, ripensandoci in seguito, non ero affatto sicura che tutte avessero gridato, tantomeno che tutte avessero capito. A qualcuna delle più piccole sembrava quasi che Yunshi stesse riformando l’insegnamento della geometria: invece di linee da tracciare sul quaderno, la trasformava in file umane lungo i corridoi della scuola, quindi in un evento più comprensibile. Nessuna aveva più niente da dire. Non solo fra le studentesse, dove le Guardie Rosse si imponevano come chi è più anziano e forte in un branco, ma anche fra le insegnanti. Quasi tutte avevano già la testa china. Non si guardavano intorno, erano rassegnate a chiudersi in se stesse e a non difendersi: perdere la dignità è molto duro, ma opporsi poteva significare perdere la vita. Lo dicevano molti racconti orali, sussurrati sempre più di frequente.

Quando le professoresse iniziarono a sfilare come sonnambule per essere bastonate, mi accorsi che molte tremavano. Le ragazze cominciarono a picchiarle con ogni genere di oggetti. Osservavo quelle più vicine. Al primo colpo che assestavano, certe studentesse avevano un’espressione incredula. Visto che la vittima stava attenta a non reagire, lo stupore poteva trasformarsi in trionfo: colpivano l’autorità scolastica, e non succedeva nulla! Così, calavano una seconda bastonata, questa volta impugnando il legno a due mani, con un ghigno stupido e feroce insieme.

Proprio come fino allora avevo galleggiato nella grigia zona intermedia di chi non era Guardia Rossa ma nemmeno oppositore, nel caos di quella mattina non ero avanzata in prima fila ma neppure mi ero ritirata in un angolo. Cercavo il posto migliore da cui osservare, senza dare nell’occhio. Questa è, però, una considerazione che faccio in retrospettiva, allora non avevo energie per pensare. Ero assorbita da un’emozione intensissima, da una partecipazione a quello che stava avvenendo: sapevo soltanto che mi riguardava, che era importante capirlo per prendere le misure del bene e del male. Ma non vedevo il bene, quindi non potevo comprendere da che parte io stessa mi trovassi.

Wang e io avevamo 14 anni. Ricordo di aver osservato attentamente cosa faceva. Malgrado le sue ingenuità feroci, era la mia amica, e l’amicizia è un bene: di questo ero incrollabilmente, infantilmente sicura. Nella sua ansia di redenzione, Wang si era sempre trovata in prima fila. Impugnava un legno, forse un manico sottratto da casa come aveva visto fare ad altre. E – provo ancora un senso di nausea nel ricordarlo – picchiava, picchiava, picchiava, con tutto il suo piccolo corpo sudato, con quel piccolo misero strumento. Con una grande, infinita furia: rivolta contro la sua famiglia, le ingiustizie e la miseria della Cina, ma anche contro la propria condizione infantile, quella di chi vorrebbe capire eppure non ha gli strumenti per farlo. Era implacabile soprattutto con se stessa. Coltivava una fragile certezza di potersi trasformare portando a fondo questo rituale purificatorio: voleva riuscire a comprendere e arrivare finalmente a sorridere. Ma, sotto questo tenue sollievo, il suo dolore era infinito. Il suo capire e crescere erano invece limitati; restavano secchielli luminosi, incapaci di svuotare un oceano nero.

Trattenni il respiro e mi si fermò il cuore quando davanti a lei sfilò sua madre.

#

© 2022 Bollati Boringhieri editore, Torino

Pubblicato in accordo con The Italian Literary Agency

Click to listen highlighted text!