Mio caro G.,
dobbiamo forse fare un discorsetto, io e te?
Quanta furia, ultimamente: lucidissima, tagliente… che cova inesorabile. Questo è un diario sull’odio, mi hai scritto nell’ultima lettera. E poi: siamo in odore di crudeltà – in una delle precedenti. Mi colpisce, sai, la terminologia che usi. È cambiata, si è fatta corrosiva. Fredda. Spietata.
Mi pongo quindi alcune domande su come andrà a finire L’uomo sentimentale. Manca poco e ancora non vedo la meta, come succede quando si indaga troppo nel profondo: invece di generare chiarezza il quadro sfuma nell’indistinto, si apre al regno dei mostri.
Mi faccio inoltre alcune domande su di te – ché di te parli poco, nelle tue lettere.
Come stai, G.? Che cosa ti passa per la testa? Quali le furie che ne prendono possesso?
Ho usato due volte questa parola, furia o furie, pensando al libro di Piovene che ha proprio quel titolo e che racconta del suo ritorno a Vicenza (a proposito, ti aspetto sempre) per un faccia a faccia con le ombre che gli hanno ingombrato i pensieri reclamando che fosse loro evitato il camuffamento dello scrittore o la vigliaccheria di lasciarle ammuffire. Ché, infatti, quella vigliaccheria coincide con un lungo silenzio narrativo di quattordici anni. Ti dice qualcosa? Non dovresti riprendere anche tu la penna in mano e usare tutti pretesti che hai a disposizione per farne metafora e poesia? È così che dice Piovene, che si era incagliato in un’opera “unica che comprendeva tutta l’esperienza della mia vita non sperperata in scritti inutili”, e che era sempre più fredda. E continua: “Ma io ero quell’opera morta. Perciò mi sentivo come un morto-vivo, impantanato in una disperata incapacità di esistere. Mi sfuggivo, a intervalli, in viaggi e in libri di viaggi che mi rimanevano estranei. Ma non riuscivo a liberarmi né a pensare ad altro. Quel romanzo senza speranza restava più forte di me, era un impasto soffocante di colla e peluria d’oca appiccicato alla mia pelle. Non sarei mai riuscito a liberarmi con un atto di volontà diretto, ma soltanto indiretto, attraverso la strada lunga della natura che raccoglie le nostre sofferenze, i nostri rimorsi, e quando è piena esplode”. Un impasto soffocante di colla e peluria d’oca… non ti pare un’immagine precisa per dire di quel blocco che impiastra le ali della tua scrittura?
Non so come la pensi tu, ma qualcuno mi ha detto che la scrittura disinnesca la rabbia, la indaga e le dà modo di distendersi, fornendole un posto in cui riversarsi e accasarsi. Credo che sia plausibile, a me sta succedendo così – parlo quindi dal punto di vista della mia esperienza, che forse non ha valore, ma il confronto, qui, è tra me e te. Non che la scrittura non ne risenta, non che non debba essere furiosa e corrosiva, anzi; ma è come se avesse un argine dentro cui scorrere impetuosa. E oltre la riva… la vita. No, non diventa più quieta, la vita (questo non posso dirlo), e neanche risolta, ma come soddisfatta, più piena (pur nei dubbi, pur negli assalti), perché salda nel sentire e nella volontà; consapevole, in qualche modo ancorata. Parlo di àncora come di qualcosa di mobile – e lo è – che può essere gettata o issata a bordo per affrontare nuovi viaggi e nuove tempeste. Mi preoccupo per te – non per quel che scrivi (ché quello è superbo, hai fatto un capolavoro nella tua ultima lettera, descrivendo e scolpendo a tuo modo il capitolo che ti spettava e intrecciandolo con Fine di una storia di Neil Jordan) – ma per dirti, come ti ho già detto in altra occasione, che ti aspetterò al di là del guado. E dunque, e per tornare a Marías, tra l’inizio e la fine di un affair – che come hai detto è storia e compravendita – non rimane niente… Dei quattro anni passati dal Leone di Napoli (che ancora non ha un nome – ma è un procedimento usuale del nostro Javier) con Natalia non sappiamo assolutamente nulla, se non quello stanco trascinarsi finale che serve a spiegare le dissoluzioni malinconiche della donna.
Tutto comincia a sparirci dalle mani, tutto ciò che è stato costruito finora va a nero o viene spazzato via da quei camion della spazzatura che disturbano la cena del Leone, dopo la prima dell’Otello. Ripuliscono il campo, lo svuotano. Nessuno si è presentato: né Natalia né Hieronimo né Dato né il suo padrino. Rivediamo Dato un’altra volta, quando annuncia al protagonista che Natalia ha prenotato una camera nell’albergo lì vicino – quello del secondo capitolo, immagino, quello con “le coperte grigie o forse luttuose”. Poi anche lui si ritira e il Leone non sa più nulla.
Di quei quattro anni cosa rimane? Com’è trascorsa la notte, mi verrebbe da dire riprendendo il titolo del libro di Filippo Tuena che, forse non a caso, tratta di un’altra opera shakespeariana, il Sogno di una notte di mezz’estate? E noi, del dominio del sogno sappiamo qualcosa visto che il Leone inizia la sua narrazione dicendo: “Non so se raccontarvi i miei sogni”… perché quei sogni sono immagini, come magistralmente hai detto tu, “proiettate dalla nostra psiche mentre dormiamo. Immagini perdute. Gli anni delle immagini perdute che in qualche modo attraverso la scrittura si cerca di recuperare pur sapendo che non ci sarà niente che le possa riportare in vita”. E poco prima citi le parole di Greene: “o sono state queste immagini a scegliere me?”. Il che si aggancia a quello che, sempre nel primo capitolo, dice il Leone: “La sola cosa che posso aggiungere a mia discolpa è che scrivo in base alla forma di durata – quel luogo della mia eternità – che mi ha scelto”. A parte la bellezza di questa frase, c’è sempre un dilemma e una scelta. Anche in questo mio capitolo.
Chi sceglie chi? E chi è scelto o abbandonato ne conosce la motivazione, sa isolarne il momento preciso oppure “si ignora sempre se il fatto stesso di essere presi obbedisce ai propri meriti o virtù, alla propria e irripetibile esistenza, all’intervento decisivo compiuto o piuttosto, semplicemente, alla casuale intromissione di uno nella vita di un altro”? L’intervallo tra il sì e il no evapora, Natalia scompare di nuovo, prende la sua valigia e se ne va. Non ne sappiamo nulla. Ci rimane la grazia e lo slancio con cui Marías descrive quel loro primo bacio nell’albergo infimo che probabilmente apre e chiude il sogno, il sogno d’amore e di possesso, “in quel pomeriggio di nuvole verdastre e aranciate e di molto vento”. Perché forse il possesso è anche questo…
“Io chiusi la porta e, quasi senza saperlo, feci piovere baci sul suo viso con silenzioso ardore, come se avessi fretta di arrivarle all’anima. Baciai le sue guance pallide, la sua dura fronte, le sue pesanti palpebre, le sue grandi e sbiadite labbra. E, quasi senza saperlo, lei si sentì sollevata dal mio possente abbraccio, come se avessi lanciato un’onda al di sopra della sua testa che l’avrebbe esaurita con il suo solo passaggio”.
E quindi, G., perché mi parli di Fine di una storia, perché mi hai detto che Sara è morta? Dov’è finita Natalia? Perché dici che questa di Marías è “la storia di un uomo che tenta invano di salvare una donna dalla propria tragedia, quella di essere afflitta da dissoluzioni malinconiche”? È quel termine, “invano”, che mi mette i brividi, unito al fatto che tu ti sei dilungato sul potere della ripetizione… Berta è morta.
G., dov’è andata Natalia, ti chiedo nuovamente?
Tua inquieta R.