Cara R.,
sono trascorse settimane dalla mia ultima lettera, settimane in cui ci siamo sentiti meno, visti per niente: in mezzo c’è stata l’estate del mio scontento, eppure adesso che riprendo a scriverti è come se questo tempo non sia mai esistito, perché il capitolo che mi è toccato in sorte, e che qui ti riporto, riprende la vicenda esattamente da dove l’avevo lasciata, ovvero dal mattino successivo alla notte in cui il nostro Leone di Napoli, assoggettato al dominio della carne, aveva provato a chiamare Natalia Manur nella sua camera d’albergo – ma gli aveva risposto il marito e lui aveva riagganciato – per poi ricevere nella sua camera “la puttana Claudina”.
Però aspetta: sappi intanto che questo periodo all’inizo della mia lettera non ha la valenza di una premessa né è un modo per riprendere il filo, piuttosto, alla maniera di quanto si fa nel cinema, è una dissolvenza per rimarcare uno stacco. Uno stacco che non condensa un mese – il tempo reale che divide questa mia lettera dalla precedente, comunque spezzato dalla tua, di lettera, dal capitolo che sta in mezzo, perché tu sei nel mezzo delle cose, nel loro centro o cuore, mentre io sono ai margini: io e la mia immagine riflessa, il mio doppio, il mio rovescio – ma, appunto, soltanto lo spazio di una notte. E sebbene “le rose dormono lo spazio di una notte”, come ci viene detto ne La notte di Michelangelo Antonioni, senza che nessuno però ci spieghi se le rose sognano e cosa, questa notte che è trascorsa, e nella quale io devo aver sognato daccapo tutta la storia de L’uomo sentimentale, ora mi appare al contempo vicina e remota. Lo appare a me e lo appare anche al nostro cantante lirico, se è vero che questo capitolo si apre così: «Lasciai cadere lo specchio sul letto e presi quel telefono, ancora con il rasoio nell’altra mano; e subito riconobbi la voce, la stessa voce che mi aveva messo in fuga con tanta facilità nell’ormai lontana notte precedente».
“Nell’ormai lontana notte precedente”. E certo qui la notte precedente è “lontana” giacché sappiamo bene come il nostro protagonista stia rievocando ricordi di quattro anni prima. Ma comunque sia, mia cara R., io qui noto come tutto si accordi alla suggestione che ti ho detto: come un mese si sia compresso in una notte sola, ormai lontana, e dalla quale pure mi sembra di essermi svegliato soltanto un attimo fa. Ma a parte i miei incantamenti, fai attenzione qui allo specchio – non sedertici sopra, non infrangerlo! – che compare da subito e che serve al Leone di Napoli per farsi la barba. Egli lo lascia cadere sul letto, sembra un oggetto di poca importanza, quasi lo dimentichiamo, noi e il nostro cantante d’opera, ma non lo dimentica Javier Marías che anzi lo mette lì quasi come fosse un “cartello”, a dirci: attenzione, tutto questo capitolo nel quale tu, mio lettore, ti appresti a entrare, sarà giocato come un rovesciamento. E quindi, il telefono dal quale il Leone di Napoli la notte precedente aveva chiamato, in maniera speculare ora squillerà e dall’altro capo del filo ci sarà la stessa voce che, sempre la sera prima, aveva risposto, e che dirà: «Sono Hieronimo Manur». Ma in questo caso il nostro protagonista non riaggancerà come aveva fatto sentendo la voce del marito di Natalia, e gli concederà quanto l’uomo gli chiede: di fare colazione insieme. Perché Hieronimo Manur, che ha una voce posata, abbastanza grave, «anche se più da baritono propriamente detto che da baritono basso», desidera incontrarlo per parlargli. E tutto questo lo stesso giorno della prima dell’Otello al teatro de la Zarzuela, in cui il nostro protagonista interpeterà Cassio. Vale a dire anche qui un rovesciamento o uno sdoppiamento o l’Otello di Shakespeare/Verdi che ancora una volta si duplica, perché in fondo è chiaro ormai come L’uomo sentimentale avveri quello che Otello/Hieronimo Manur teme: che sua moglie Desdemona/Natalia possa tradirlo con Cassio/il Leone di Napoli.
Siamo già in scena, R., accomodati! E ci siamo dal primo rigo del romanzo, già dall’alba di quel sogno dal quale tutta questa narrazione è precipitata, tornando a quella sera in treno di quattro anni prima. O forse ancora no, non del tutto, e saremo in scena tra dieci minuti, il tempo che Hieronimo Manur impiega per bussare alla porta della camera del Leone di Napoli che, però, quando lo riceve, non è ancora pronto: si sente sporco, malvestito, nervoso e non del tutto a posto a causa della rasatura a metà. E questa cosa suona come una beffa, lo è in modo particolare per un uomo, il Leone di Napoli, che in generale è un perfezionista e lo è soprattutto in questa situazione, davanti a Hieronimo Manur che invece è pulito e fresco e ben vestito e profumato. È un po’ come salire sul palcoscenico senza avere avuto il tempo di prepararsi e truccarsi. È un rapporto di forze, un confronto, una sfida – siamo in odore di crudeltà, ti dicevo nella lettera scorsa – e adesso che si apre il sipario – si apre la porta della camera d’albergo del Leone di Napoli – a dominare sull’altro, a soverchiare l’altro, è Hieronimo Manur. È lui che si avvicina al tavolo dove intanto è arrivata la colazione, che sempre lui ha ordinato; è lui ad accomodarsi per primo e, con mano sicura, a versare il caffè al Leone di Napoli e a sé stesso. È Manur, insomma, quello che appare favorito dalle circostanze – anche se la stanza non è la sua: un altro rovesciamento – e che subito mette alle strette il Leone di Napoli affinché interrompa ogni rapporto con la moglie. Manur sa, infatti, come la notte prima sia stato il nostro cantante d’opera a telefonare in camera, sicuramente per parlare con la moglie. Come faccia a saperlo, è presto detto: «Ho chiamato immediatamente la portineria e ho domandato se quella telefonata sfuggente e anonima veniva da fuori o dall’albergo, e poiché mi hanno risposto che veniva dall’albergo ho domandato da quale camera».
Questa, per Hieronimo Manur, è la prima anomalia: «A me basta una prima azione impropria per sapere quello che verrà dopo», dice al Leone di Napoli che non fa che arrossire. «Ma il fatto» continua il marito di Natalia, «è che c’è stata una seconda anomalia: lei ha poi fatto venire qui una prostituta, di sicuro con l’intenzione di sfogare su di lei il suo malessere o la sua frustrazione».
La verità, mia cara R., è che il banchiere belga sembra sapere tutto, e sembra saperlo perché queste situazioni deve averle già vissute, al punto che per lui sono ormai ordinarie e banali. Egli d’altronde sa come la moglie, a causa del lavoro che egli svolge, sia molto spesso sola e annoiata e sa quindi come questo la esponga di continuo alle insidie e alle trame di altri uomini. Insidie e trame alle quali è preparato e che lui preferisce interrompere quando sono ancora all’inizio. È quello che per esempio ha intenzione di fare adesso – nella vita reale riscrivere l’Otello, modificarne il prosieguo, evitarne il finale. Rovesciarne il libretto, insomma, lui che deve avere già fatto questa parte decine di volte. Ma in questo caso particolare è un po’ come dire: d’accordo, io non sono un uomo di teatro, sono un banchiere, ma conosco la vicenda dell’Otello, so benissimo come va a finire – male, molto male, è una tragedia o no? – e so il ruolo che in verità ha avuto Cassio, che non era artefice di niente, non lui almeno, e non lo sarà certo adesso, in questa situazione, e visto che io sono un soverchiatore, uno che detiene il potere dei soldi, e visto che il potere dei soldi vale molto più del potere di voi poveri attori, intellettuali da stapazzo, posso permettermi di decidere il destino delle cose del mondo a seconda di ciò che mi conviene, che voglio, che va a mio vantaggio, perché «io posso permettermi le esagerazioni». E così, ecco che butta in faccia al Leone di Napoli la terza anomalia: «Lei, con quella prostituta, non ha combinato granché, non è vero? E in questo non posso vedere altro che una conferma di quanto le sto dicendo riguardo al suo interesse per mia moglie».
Non è importante sapere come Hieronimo Manur sia venuto a conoscenza di ogni cosa. Potrebbe aver parlato con Claudina o Claudina con il portiere Céspedes, il quale poi potrebbe aver fatto da tramite. La sostanza non cambia. Ciò che è sicuro è che anche qui c’è un rovesciamento. Mentre il Leone di Napoli compiva delle scelte, queste gli si ritorcevano contro e, nello stesso tempo, proprio mentre forse dormiva – come una rosa che dorme lo spazio di una notte –, nell’altra stanza Manur non dormiva affatto: telefonava al portiere, scendeva alla reception, incontrava Céspedes, saliva in una stanza per parlare con “la puttana Claudina”, poi infine tornava in camera e indugiava a prender sonno sciogliendo e ordendo le sue trame e pensando alla maniera in cui il mattino dopo avrebbe chiamato il Leone di Napoli per mettere in chiaro ogni cosa: che l’artefice del destino è lui e lui soltanto.
Ma ecco che quando tutto sembra essersi rovesciato – rovsciata la stessa notte precedente in qualcosa d’altro, dilatata, forse, perché non tutti dormono la notte e certuni si possono perdere, smarrire, allontanare, anche se ormai intanto si è fatto giorno e non ricordiamo più se è trascorsa soltanto qualche ora o qualche settimana – si arriva alla fine di questa lettera e di questo capitolo senza ancora aver detto la cosa più importante. Ma la colpa qui, mia cara R., non è mia bensì del Leone di Napoli o di Javier Marias o di Hieronimo Manur, il quale, tra l’altro, è convinto, sbagliando, che il suo interlocutore già sappia su quali condizioni si basa il suo matrimonio con Natalia. Perché la natura di tali condizioni giustificano la sua venuta in quella camera e il fatto che egli abbia detto ciò che ha detto: intimare e ordinare al Leone di Napoli di non incontrare mai più Natalia. Non semplicemente perché ne sia geloso, ma perché Hieronimo Manur a Natalia non l’ha soltanto sposata, bensì comprata, acquistata in proprietà. Gli appartiene, insomma, «nel senso più rigoroso della parola appartenere». Come ciò sia potuto accadere, sarai tu, cara R., a rivelarmelo, perché è chiaro come questo incontro, che sembrava essere una prevaricazione, proprio sul finale si vada a sua volta rovesciando – e i rapporti di forza, anche – in qualcosa di diverso. In una confessione, forse. E se sarà una confessione, a parte capire in che situazione si è cacciata Natalia e perché, forse finalmente scopriremo chi veramente è l’uomo che qui dice, con l’acca aspirata: «Sono Hieronimo Manur».
Tuo G.