Mia cara R.,
perdona il mio ritardo nel risponderti: ti ho accennato in un messaggio come questo sia stato un periodo strano, un periodo nel quale mi sono smarrito e ritrovato e smarrito di nuovo, e come sia stato un paio di fine settimana a Perugia e abbia letto libri strani, libri che forse mi hanno fatto perdere le tracce della realtà. E ti ho spiegato anche come io non abbia sentito l’urgenza di risponderti subito e come non volessi farlo senza questa urgenza, perché non voglio che tra noi ci siano finzioni e trucchi e falsità. Non tra noi, “che abbiamo imparato a distinguere quali finzioni narrative rimandano all’autenticità del nostro essere e quali no”. Questo fino all’altro giorno. A mercoledì scorso, per l’esattezza. Perché mercoledì scorso ci siamo visti a Roma e abbiamo camminato e parlato – non abbastanza, però, perché il tempo è stato poco – e siamo andati a sentire Mauro Covacich che presentava il suo ultimo romanzo/non romanzo, Di chi è questo cuore, anche se tu a un certo punto sei dovuta andare via e ci siamo salutati frettolosamente e soltanto quando ti ho vista di schiena andare via, mi sono reso conto di tutto quello che avrei voluto dirti e non ti avevo detto. E allora sono stato preso dall’urgenza, dalla necessità di risponderti; perché sì, anche soltanto il fatto di esserci visti va qui ricordato: ogni cosa bella che ci accade va convertita in scrittura, perché solo scrivendole le cose perdurano e prendono nuovamente corpo, se non fuori di noi – perché molte cose esistono al di fuori di noi – certamente nel nostro essere e sentire; perché se io scrivo il tuo nome più volte e di seguito e senza interrompermi, se scrivo: Rossella Rossella Rossella Rossella Rossella Rossella Rossella Rossella Rossella Rossella Rossella Rossella Rossella Rossella Rossella Rossella – finalmente il tuo nome per intero – io ti riavvicino sempre di più a me, dentro di me. Più scrivo il tuo nome e più è come se tu ti spostassi da dove sei, per uscire di casa, attraversare la piazza di Vicenza, entrare in stazione, salire su un treno, raggiungere Roma, Frosinone, Perugia, e insomma: il luogo preciso dal quale ti scrivo ora. E se poi questo succede soltanto nella mia immaginazione e non nella realtà, in fondo, forse, non fa molta differenza.
E scusami, lo so che queste righe sembrano allontanarsi dall’idea dalla quale tutto è iniziato mesi fa: quella di condividere la lettura de L’uomo sentimentale di Javier Marías: però, se ci pensi bene, in verità è l’esatto contrario. Ovvero: noi quell’idea la stiamo realizzando, pur con tutte le divagazioni; e anzi, il proposito era proprio di contaminarci, perderci, esaltarci, avendo come unica bussola un libro e la fiducia reciproca di ritrovarci in qualche frase e in qualche città. E lo abbiamo fatto, lo stiamo facendo, per cui non temere mai che io possa stancarmi di te, di questa Folie à deux, e non importa se scriversi lettere può sembrare anacronistico: i postini non sono come i commessi viaggiatori che vanno scomparendo, e non è vero che suonano sempre due volte. Spesso non suonano mai o suonano e non trovano nessuno e quando la sera torno a casa e apro la cassetta della posta e trovo una tua lettera, ogni cosa si illumina. Anche se intanto si spegne la luce dell’androne, ogni cosa resta come illuminata.
Adesso ascoltami bene: io certo che raccolgo la tua suggestione, quella di incontrarci a Venezia, dove non vado da anni, e dove sarò felice di tornare. Non sapevo neanche che Marías avesse scritto “il nostro libro” a Venezia. Non ho letto Venezia. Un interno e, insomma, sono tante le cose che non so e che tu mi racconterai e che io ascolterò con attenzione, però nel frattempo sono andato avanti nella lettura de L’uomo sentimentale, avanti di un capitolo, e ricordo bene quello che nella storia è accaduto – anche se ancora non è accaduto molto, in verità – e soprattutto cosa si propone di “confessare” il nostro protagonista e come intende procedere nel racconto.
Il nostro tenore, il Leone di Napoli, parte da un sogno appena fatto: un sogno nel quale deve aver rielaborato in qualche modo un concatenazione di eventi che hanno avuto inizio quattro anni prima, quando, in viaggio verso Madrid, dove si stava recando per fare Cassio nell’Otello di Verdi, nel suo scompartimento vide per la prima volta queste tre persone, due uomini e una donna, che conoscerà poi nello stesso albergo in cui alloggerà. Se volessimo attenerci soltanto ai fatti, questo finora sarebbe tutto. Ma “i fatti” non sono tutto, perché sono soltanto un pretesto, l’occasione, magari, per dire altro. “I fatti” di per sé non sono niente. Lo sapeva bene lo stesso Philip Roth che intitolò I fatti quella che doveva essere la cronaca fedele della sua vita, salvo però nel libro utilizzare l’espediente di inviare il manoscritto a Nathan Zuckerman, il suo suo alter ego, finendo così per contaminare i fatti stessi con la finzione narrativa.
E lo sapeva lo stesso Mauro Covacich che una decina di anni fa scrisse Prima di sparire proponendosi, innanzitutto dinnanzi a sé stesso, «di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità» perché «questi fatti esistono, queste persone esistono, io esisto». Ma nel momento in cui aveva fatto leggere il dattiloscritto alle persone coinvolte nella storia, si era sentito rispondere che, «sì, i fatti sono quelli, ma visti con i tuoi occhi, detti con le tue parole. Quei fatti non sono i miei fatti». Un modo per dire che «la memoria è una facoltà soggettiva e ogni ricordo non è che il modo in cui la mente intende raccontarlo, anche quando è in buona fede, anche quando parla con sé stessa».
E comunque, a parte l’ennesima divagazione, essendo L’uomo sentimentale una storia di incantamenti e premonizioni, è interessante come il nostro tenore intenda procedere nella narrazione, raccontando, come mi hai ricordato tu, «entrambe le cose, quel che è accaduto e il sogno di quel che è accaduto, dato per acquisito il non poterle distinguere».
Di tutto questo, mia cara R., abbiamo già parlato nelle lettere precedenti e non mi dilungo. Non ti voglio annoiare. Però tieni a mente queste tre parole: voce, nomi, volti.
Il capitolo che ho letto, il quinto, inizia con una esitazione che ti riporto:
«E tuttavia provo qualche resistenza a raccontarvi tutto. Un povero tenore che ha paura del suo stesso racconto o dei suoi stessi sogni, quasi che utilizzare parole correnti anziché parole musicate, vocaboli non suggeriti, frasi inventate anziché testi già scritti, imparati, memorizzati, ripetitivi, paralizzasse la sua possente voce che ha conosciuto finora soltanto lo stile recitativo».
Questo è un punto importante: la voce, la potenza della voce, la sua autorevolezza e da dove proviene questa voce, e come essa ci cattura e ci avvince e ci persuade ad ascoltarla fino alla fine. Ora il fatto è che il protagonista de L’uomo sentimentale è un tenore, qualcuno, cioè, che “lavora” con la voce e la esercita e se ne deve prendere cura. Qualcuno che però ha sempre prestato la propria voce per interpretare opere altrui, qualcuno per il quale «è difficile parlare senza libretto». Adesso invece deve fare uno sforzo. Non deve cantare a teatro L’uomo sentimentale, ma deve, appunto, scriverne “il libretto”. Decidere i tempi e chi parla e quando e in che modo dispiegare questo dramma. E per tutto il quinto capitolo, così come lo avevi lasciato tu in quello precedente, il nostro tenore, il nostro Leone di Napoli, se ne sta seduto al bancone del bar dell’albergo, con un bicchiere di latte caldo, mentre uno dei due uomini del sogno e dell’incontro in treno lo ha intanto riconosciuto, («Lei qualche giorno fa si trovava sullo stesso treno su cui eravamo noi, non è vero? Non si ricorda di me?»). Questo uomo, che si chiama Dato, quando viene a sapere che il nostro protagonista è un cantante, dice che avrebbe dovuto supporlo «da quel torace possente, dalle spalle, dai pettorali, dalla complessione, poderosa». E aggiunge: «Lei è l’immagine vivente di un cantante, non gliel’hanno mai detto?».
Nota qui, mia cara R., come il nostro tenore, l’io narrante del romanzo, sia per la prima volta fatto vedere ai nostri occhi dal punto di vista e con la voce del primo dei tre “volti” che egli aveva visto e osservato in treno all’inizio della storia: l’uomo che gli era seduto davanti, con la voluminosa chioma di capelli canuti e increspati, le mani piccole, i pantaloni eleganti, la giacca sgargiante, e che gli offriva soltanto il profilo perché guardava fuori dal finestrino o guardava sé stesso nel vetro. E quest’uomo, questo “volto” si rivolge ora al nostro tenore utilizzando lo strumento della voce come se egli stesso recitasse «una lamentazione, l’introduzione a un’aria». Vale a dire che Dato si appropria delle stesse armi del Leone di Napoli, fa suoi quei trucchi, ordisce i suoi incantamenti. Che gioco spietato e sublime è la letteratura e come attraverso essa noi possiamo vedere ogni cosa duplicata e rovesciata e sdoppiata e ripetuta! Volutamente, certo, eppure come qui tutto sembra combinarsi per una forma di destino che trascende non solo i personaggi, ma anche Marías stesso, come se fosse posseduto e abitato lui stesso da una scrittura che si compone da sé. Come se Marías sia un esecutore anche lui, l’esecutore di un libretto d’opera dettato da una qualche altra entità, spirito, fantasma.
Nel quinto capitolo apprendiamo inoltre i nomi e chi sono i tre personaggi del treno e del sogno.
Il primo è Dato, che non è un commesso viaggiatore, bensì il segretario particolare e consulente di borsa del signor Manur, e soprattutto l’accompagnatore della signora Natalia Manur, la donna che in treno, tra Dato e il marito, era addormentata con i capelli a coprirle il volto. Insomma, improvvisamente in queste pagine si definiscono i ruoli e si fanno i nomi, i nomi di tutti, tranne però del nostro tenore, il quale non è chiamato e non si chiama e sembra non avere nome. Il Leone di Napoli, e basta. E quando Dato gli chiede se sia sposato, egli risponde di no, e ora se ne rammarica, perché è una bugia, perché all’epoca viveva da un anno con una donna il cui nome era Berta.
Cioè, R. hai capito dove voglio arrivare, dove si può arrivare? Hai capito che questa lettera potrebbe non finire mai?
Senti cosa scrive/dice il nostro tenore: «E sebbene fosse vero che non ero sposato di fronte a nessuna legge, pensai immediatamente che avevo mentito e pensai immediatamente a Berta, che quattro anni prima già da un anno viveva con me. (Sì, sebbene non mi piacesse ricordarlo adesso, sebbene preferissi che non fosse stato così, è vero che Berta visse per un certo tempo con me; e mi aspettava sempre in casa al ritorno dai miei viaggi operistici, che, come ho raccontato, erano già abbastanza numerosi a quell’epoca)».
Possiamo dire che la Berta descritta qui è già in qualche modo la prefigurazione di Berta Isla? Una Berta Isla che qui non vediamo, che non ha voce, che non ha volto, mentre siamo, forse, dentro una delle vite di Tomàs, che comunque è uno che presta la sua voce, il suo corpo, tutta la sua persona e molto del suo tempo per essere qualcun altro da sé?
E infine ci sono i volti. C’è il volto di Natalia Manur, tutta la sua figura che si ritaglia sulla cornice della porta del bar. La donna che il nostro tenore aveva visto tormentarsi nel suo sonno qualche giorno prima. Eccola che viene. Che viene, però, ammantata di mistero, ancora una volta come fosse un’apparizione, introdotta dalla voce di Dato che per primo la vede riflessa nello specchio dietro il bancone e dice al nostro tenore: «Eccola qui». Ella attende sulla soglia, sorridendo a metà, e il suo tratto distintivo è l’esitazione. La stessa con la quale ella sembra vivere la sua vita (secondo quanto Dato racconta, perché Natalia è infelice e tragica, ed è «destinata a perdere»); la stessa dimostrata dal nostro protagonista che procede nella storia come un sonnambulo, come qualcuno al quale i fatti sono accaduti al di fuori della propria volontà e non sa come riportarli; la stessa di Dato, che pure tesse una trama, avvia un destino. Spinge il Leone di Napoli tra le braccia di Natalia Manur o Natalia Manur tra le braccia del Leone di Napoli, al quale ha d’altronde già fatto rinnegare Berta. O forse il vero responsabile di tutto è il nostro tenore o Natalia, la donna «afflitta da dissoluzioni malinconiche» o magari il grande assente, il signor Manur, ancora fuori scena, troppo preso dai suoi affari. O nessuno di loro quattro. Esistendo comunque la possibilità che la colpa di tutta la tragedia, mia cara R., siamo io e te che continuiamo a leggerla, ripetendola ancora e duplicandola e sdoppiandola e rifrangendola con le nostre voci e i nostri nomi e i nostri volti.
Tuo G.