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Madeline Miller. La canzone di Achille

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Era ancora una studentessa della Brown University, Madeline Miller, quando capì che voleva e doveva raccontare la storia di Achille e Patroclo. Ne ebbe l’illuminazione quando le chiesero di condirigere un adattamento studentesco del shakespeariano Troilo e Cressida. La parola scenica ha una forza di persuasione, la forza dell’evidenza, che induce la Miller a interrogarsi circa la sostanza e la carnalità del rapporto tra i due che, nella pièce di Shakespeare, è assolutamente dichiarata- e sbeffeggiata-, dal momento che Patroclo viene chiamato da Tersite “il bagascio di Achille”, “la sua puttana mascula”.

A parte la potenza della perorazione di Ulisse, volta a convincere Achille che l’inerzia porterà la sua gloria ad appassire, il discorso che viene svolto in Troilo e Cressida sul tempo, “invido e calunnioso” con quella sua “bisaccia sul groppone, dove mette elemosine per l’oblio, enorme mostro d’ingratitudine”, è teso a dimostrare quanto “le cose che si muovono attirano più l’occhio di ciò che sta fermo”. Tra le cose che si muovono noi potremmo includere anche le parole che, una volta pronunciate, compiono un percorso e arrivano lontano: in questo caso si infilano nell’orecchio della scrittrice che non può fare a meno di chiedersi: Chi è quell’uomo, quel ragazzo per cui Achille si dispera tanto? E infine a dar nuovamente fiato alla storia d’amore che rischiava di confluire nella bisaccia del tempo dove tutto viene dimenticato (sappiamo quale sia l’importanza che, ad esempio, uno scrittore come Marias dà alla “nera schiena del tempo”).

Parte da qui, Madeline Miller, per comporre questo straordinario affresco sui sentimenti attraverso cui riesce a raccontare un’amicizia, una filìa, che ci mostra in controluce i grandi ideali che informavano la società greca. E riesce a farlo attraverso gli occhi del meno eroico, del più marginale dei combattenti greci che assediano Troia ma che, secondo Miller, è il vero turning point della vicenda omerica visto che, dopo la sua morte, Achille rompe ogni indugio e torna in battaglia.

Vincitore dell’Orange Prize for fiction 2012, La canzone di Achille (Sonzogno, 2013, pp. 382) è arrivato in un momento di grande revival del classico, e dell’Iliade in particolare: negli stessi anni si stampano Memorial di Alice Oswald, Ransom di David Malouf, e nel marzo appare a New York un nuovo adattamento scenico del poema omerico. Le pagine dell’Iliade riescono a parlare ancora oggi a chi vede il proprio mondo dilaniato da guerre, anche se lontane, fuori portata, che creano comunque un senso di allarme e formulano importanti interrogativi circa il senso di quelle guerre e l’opportunità da parte dei politici di ingaggiarle, dal momento che l’Iliade, il poema sul decennale assedio di Troia e sulle perdite, in termini di vite umane, che comportò, può costituire un sempre evidente e tragico monito. È su questo, ad esempio, che lavora Alice Oswald nel suo Memorial, assegnando a ciascun combattente morto un altro attimo di respiro, un barbaglio di luce che ne illumini la breve esistenza.

Se da un lato Miller ricostruisce con teneri accenti- ispirandosi più a Catullo che a Omero come dice lei stessa- la relazione tra i due giovinetti e il loro apprendistato alla vita, dall’altro dà assoluto rilievo alla figura della madre di Achille, Teti, che si staglia in tutta la sua terribilità nel cielo di Patroclo. A tal proposito appare ben lontano, questo ritratto di Teti, da quello che ne traccia Omero e che descrive la Bespaloff nel suo Sull’Iliade.

Ne La canzone di Achille, la “dea luminosa”, “piede d’argento”, “riccioli belli” che appare nell’Iliade tutta carezze e lacrime accorate vicino al figlio in riva al mare, si trasforma (ed è il punto di vista di Patroclo, certamente, che non partecipa in nessun modo della natura divina) in una presenza torreggiante e dal respiro gelido, dalla voce roca e aspra come pietre che digrignano fra le onde, disgustata da quell’essere “allampanato e sottile, gambe da cicogna” che non crede pari a suo figlio e che in tutti i modi tenta di allontanare da lui: “la sua bocca era uno squarcio rosso, rosso come lo stomaco aperto di un animale sacrificato, un oracolo di sangue. I suoi denti scintillavano affilati e bianchi come osso”; e più avanti: “in lei c’era qualcosa di selvaggio come se un vento invisibile stesse sibilando attorno al suo corpo. Sembrava una delle Furie, i demoni che nascono dal sangue degli uomini”.

La forza di Patroclo non deriva dalle sue virtù di guerriero, ma dalla fedeltà ad Achille, dalla perseveranza con cui coltiva il suo sentimento. Chirone, il centauro presso cui i due ragazzini passano qualche anno di felicità assoluta, lo avvisa: “Non permettere che ciò che ti sei guadagnato oggi venga vanificato così facilmente”.

Patroclo si abbandona al suo desiderio estatico: “Mi sembrava un miracolo, poterlo guardare apertamente, godere di come la luce giocava sulle sue membra, la curva della sua schiena mentre s’immergeva in acqua. Più tardi, ci sdraiammo sulla riva del fiume, e scoprimmo nuovamente l’uno il corpo dell’altro. Questo e questo e questo. Eravamo come dei all’alba del mondo e la nostra felicità era così abbagliante che non potevamo vedere altro che noi”.

Seguirà la tragedia della guerra ma queste prime vibranti pagine sulla scoperta dei corpi e sul loro ardore incontenibile rimangono impresse.

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