La notte dell’uccisione del maiale (per i tipi di Anfora, traduzione di Francesca Ciccariello), secondo romanzo di Magda Szabó, tra le voci più alte della letteratura dell’Europa dell’Est, ruota intorno a due famiglie i cui percorsi si incrociano – per volontà e destino – nell’Ungheria degli anni Cinquanta.
Nella fredda Debrecen di un pomeriggio di dicembre di cielo pesante, tondo, buio, i saponieri di lunga data Tóth, imparentati loro malgrado con i nobili Kémery tramite il matrimonio di Janos e Paula, si apprestano alla preparazione lenta, rituale, primitiva di una macellazione collettiva che dovrebbe fornire nutrimento per corpo, forse anche anima, nei mesi a venire.
Il dover radunare in un unico luogo tutti i componenti della famiglia, si comprenderà presto, è solo un pretesto letterario, certamente riuscito: l’azione, tutta, procede nelle pagine volutamente lenta.
Szabó decide per un accumulo di voci che si affastellano nell’incrocio di interpretazioni dei (tanti, si scoprirà) inciampi nei rapporti fra le due famiglie. Saponieri e nobili, pur uniti per sorte, restano irrimediabilmente separati da radici e condotta morale:
Il maestro guardava dal salone la scena nella sala da pranzo. Anti allargò i gomiti, Andrea vi pose sotto due libri sottili, Anti li strinse al busto, poi prese la forchetta e un pezzo di pane. Non protestò, mangiava muto. Andrea stava in piedi dietro a lui, osservava. Ora non faceva cadere quasi mai i libri, forse un giorno avrà fine l’esercitazione e il poveretto sarà libero. Paula lo guardò storto quando le disse che il bambino aveva paura dei pasti: mangiava così poco per poter finire in fretta, per questo poi chiedeva sempre del pane in più. Paula scrollò le spalle, dicendo che con quel sistema aveva educato a modo anche Andrea mentre lui era al fronte, e lei stessa, come pure i suoi fratelli, avevano imparato così a mangiare con decoro.
All’argenteria abbrunita dei Kémery fa da controcanto il vasellame di casa Tóth, dove le tazze senza manici e con le crepe continuavano invece ancora il loro servizio: ci tenevamo qualcosa dentro, qualcosa che non necessariamente aveva a che fare con il pasto ma che esigeva una propria collocazione: ricino, acido, fermento.
Il rigore algido, la schiena dritta, la convinzione di appartenenza a una classe senza pari devono piegarsi a un matrimonio di convenienza: lo sarà per entrambe le famiglie, sia per i Kémery che si sono giocati alle carte “molto sporche” “con i vetturini” terreni e proprietà, case di cui rimane un ricordo “di buoni odori, bianchezza e azzurrità”, che per i Tóth, decorosi e umili produttori di sapone ma con un figlio maestro e perciò pronto a scalare vette fino ad allora impensate.
Ma tutto, nei ricordi differenti che emergono in ogni personaggio, lascia pensare che l’unione non abbia avuto l’esito sperato: non c’è amalgama, passa in filigrana una vena aurea di rancore sottotraccia talmente potente da diventare nel libro personaggio a sé. È questo un aspetto autobiografico riconosciuto dall’autrice stressa, che dichiarò di avere attinto dalle figure famigliari un’“irrazionale, assurda animosità che non si smorzava ma permaneva nei decenni” che però trasposte in letteratura assurgono a un livello epico, alto, si fanno paradigmi totali.
Szabó in questo secondo romanzo dopo il bellissimo Affresco (anche questo portato in Italia da Edizioni Anfora in un’operazione culturale ammirevole e lungimirante) affina ancor maggiormente il suo già potente sguardo: la sua scrittura porta stavolta con sé il piccolo miracolo di produrre pagine descrittive fittissime di dettagli eppure scorrevoli, da cui non ci si riesce a staccare, con buona pace della trama e dei suoi eventuali sviluppi o assenza di essi.
Importa poco che si giunga o meno alla promessa del titolo, all’accordo sul rito familiare. Importa ancora meno – ma non va sottaciuto – che in un’Ungheria sconquassata dallo stravolgimento portato da una nuova forma di governo nell’immediatezza della fine della seconda Guerra Mondiale, Szabó rivelasse come “recensori marxisti” avessero bollato come “insolente” questa sua opera, che a dir loro “richiamava l’attenzione sui difetti allarmanti del sistema”: non è questo il nocciolo della narrazione, la Storia vi entra marginalmente, si percepisce sì la delicatezza di una fase di assetto che sovrasta le singole individualità, ma rimane utile tela di sfondo. Più che il cambio di regime sono i cambiamenti nel singolo, a interessare l’autrice: o, di converso, le cose che rimangono eterne (magnifica in questo senso la pagina che racconta di come in una stanza si tenessero le fotografie dei trapassati appese al contrario così da indurre uno sforzo di memoria in chi era ancora in vita: avere l’immagine sempre davanti avrebbe portato all’abitudine, che conduce allo scolorire dei volti amati fino alla loro sparizione. Girate a mostrare il dorso, le fotografie avrebbero invece imposto la loro presenza, a cui chi le guardava avrebbe dovuto necessariamente associare una memoria, mantenendo solo così vive le generazioni precedenti).
È invece la grandezza della perfetta resa dei punti di vista, delle interpretazioni, delle schegge rifrante, a essere importante e a rimanere.
Sono il bene donato e mai riconosciuto, i tanti, densi, silenzi di famiglia, le pieghe amare prese dalla vita – raccontate dalla lingua di grande precisione di Szabó, una lingua amorevole – a restare.