Joe Mungo Reed, giovane promessa della narrativa inglese, già vincitore del “Joyce Carol Oates Award”, rivela che il gancio d’avvio per la stesura del suo primo romanzo, Magnifici perdenti (Bollati Boringhieri, 2019, pp. 250, euro 17,50), lo trovò nel 2012 mentre seguiva la vicenda che travolse la carriera di Lance Armstrong e che sfociò nelle esplosive rivelazioni del suo compagno di squadra, Tyler Hamilton.
Hamilton, che ne scrisse in La corsa segreta, fece un quadro completo delle sostanze dopanti che erano soliti assumere. Oltre alle trasfusioni di sangue precedentemente prelevato e al testosterone vi era un’altra sostanza, un ormone che era in grado di regolare la produzione di globuli rossi: l’eritropoietina, abbreviata in EPO. Armstrong e i compagni la chiamavano anche “Edgar” per l’assonanza con il nome di Edgar Allan Poe.
Che cosa avrebbe pensato, si chiese Reed, lo spettatore che avesse sentito un ciclista domandare a un altro un po’ di Edgar Allan Poe? Che, dopo aver percorso un centinaio di miglia, progettava di rilassarsi leggendo il racconto La maschera della morte rossa?
Un dettaglio spiazzante, weird: proprio quello che serviva a Reed per iniziare la sua narrazione.
Il romanzo non parla di doping, o meglio, ne parla, ma come spunto per descrivere l’esistenza di un singolo appartenente a un gruppo che ha regole proprie, aberranti a volte, e che spingono l’autore a vedere oltre lo sport e la squadra: a vedere cioè l’inceppo, la particolarità, il patetico e anche il ridicolo di quei giovani, la loro “lentezza bovina” che serve a conservare energia per la gara, ragazzi che allenano il corpo, non la mente.
Come si è capito, Magnifici perdenti racconta la storia di un ciclista, un gregario per la precisione. Solomon è sposato da pochi anni ed è diventato papà, ma il figlio e la moglie riesce a vederli assai poco, impegnato com’è tra allenamenti e Tour de France.
La coppia però non ne risente perché entrambi i coniugi sono totalmente assorbiti dal lavoro e dall’ambizione che li rende quasi anaffettivi. Questa è la loro sostanza. Visti dal di fuori appaiono calcolatori, freddi ingranaggi di un meccanismo. È per questo che il paragone con il peloton risulta particolarmente calzante. Il peloton è “il gruppo composto dalla maggiornaza dei ciclisti, che procedono restando compatti, dandosi il cambio al comando”. Nessun pensiero di gloria, nessuno slancio. L’etica del compiere il proprio dovere senza interrogarsi è ciò che conta: e dunque il fare, il fare in sé, come sono convinti Solomon e Liz; e non brillare- la vittoria è riservata al leader-, non pensare a se stessi, non pensare e basta. “Questo voglio: non il podio, i fiori o il denaro (o almeno non solo quello), ma la sensazione di stanchezza giustificata, la soddisfazione di aver fatto quello che mi si chiedeva”.
Così è anche per Liz, che conduce esperimenti di laboratorio sulla perdita di funzione negli embrioni del pesce zebra ed è consapevole che il suo nome non sarà mai riconosciuto, pur se dovesse giungere a conclusioni importanti. “Eravamo partner nel nostro comune senso di solitudine, nelle nostre preoccupazioni incomprensibili ai più. Entrambi mettevamo la nostra routine, la nostra fatica, al servizio di momenti singoli, di possibilità. Sembrava nobile, tutta questa attesa”.
Joe Mungo Reed, con una scrittura semplice e piana- al contrario delle salite rompi-gambe del Tour de France che il protagonista affronta mentre, in flashback, rivede la sua vita-, riesce a raccontare una storia che fila via liscia come l’olio e a bilanciare accortamente l’asprezza di certi caratteri e di certe fosche situazioni con l’ironia che riserva a quei ragazzi che, a volte, non brillano per intelligenza ma sono chiamati a compiere imprese faticosissime.
E il lettore, anche il meno interessato al ciclismo, saprà cogliervi non solo la brutalità dell’agonismo e la spietatezza di uno sport, ma anche la semplicità di quei giovani esseri umani impreparati alla vita e messi di fronte a richieste troppo impegnative per loro, ragazzi per cui “l’eroismo coincide con brevi intervalli di dieci secondi. Dico a me stesso, “Ancora dieci secondi”, e quando quei dieci secondi sono passati, mi ridico la stessa cosa. Se riesci a posticipare il momento del collasso abbastanza a lungo, allora magari puoi farcela fino alla fine”.
Manca un po’ di riflessione ma a loro, a quei “magnifici perdenti”, ovviamente non è richiesto…
Rossella Pretto