Per Le Tre Domande del Libraio su Satisfiction questa settimana incontriamo Deborah D’Addetta con il suo romanzo dal titolo “Maleuforia, pubblicato da Giulio Perrone Editore e presentato in anteprima al Salone del Libro di Torino e da pochi mesi in libreria. Deborah D’Addetta fa parte del collettivo «Spaghetti Writers» per cui scrive racconti ed è redattrice, recensisce libri per «Critica Letteraria» ed è contributor di varie testate tra cui «Italy Segreta», «Mar dei Sargassi», «City News – Napoli Today». Molti suoi racconti e scritti di natura saggistica sono stati pubblicati su riviste letterarie. Ha vinto il premio letterario “L’Avvelenata con Blam” nel 2021.
Antonello Saiz
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Deborah, ci vuoi raccontare la tua passione per la lettura e il tuo percorso nel mondo dei libri e poi della scrittura, per poi spiegare come nasce l’idea di questo romanzo e come sei arrivato alla casa editrice Giulio Perrone Editore?
Come lettrice inizio davvero da giovanissima, grazie a mia madre che è a sua volta una grande lettrice. Ho cominciato con i classici, soprattutto i romanzieri russi e francesi, poi mi sono appassionata al fantasy con Tolkien. Solo dopo l’adolescenza ho allargato il mio ventaglio di letture includendo anche testi più contemporanei. Oggi leggo qualsiasi cosa, dalla saggistica alla narrativa breve, ma resto un’appassionata lettrice di letteratura sudamericana e giapponese, sia per la loro portata esotica che per quella erotica. A questo proposito ammetto anche di essere una fan dei romanzi erotici, specie quelli che nel corso del tempo hanno subito censure. Per quanto riguarda la scrittura invece, credo di scrivere (o almeno, ci provo) da quando so tenere una penna in mano: i primi raccontini alle medie, con tanto di schemi, viaggio dell’eroe, liste, mappe mentali; poi durante gli anni universitari mi sono fermata per riprendere intorno ai 25 anni. Da allora non mi sono più fermata e ho intrapreso anche la strada della critica letteraria. Se vogliamo, il trampolino di lancio sono state le riviste letterarie: sei o sette anni fa ho proposto molti testi brevi, poi pubblicati su riviste come Blam, Crack, Bomarscé, In Allarmata radura, Spaghetti Writers (collettivo di cui faccio parte). Proprio per questi ultimi pubblicai un racconto dal titolo “Paillettes e il fondo del mare”: venne notato da alcuni editor di case editrici tra cui Lucio Leone di Wojtek, Alessandro Gazoia di Nottetempo e Antonio Esposito, che in quel momento era editor di Polidoro. Tutti e tre amarono molto quel racconto e mi chiesero se avessi nel cassetto un romanzo. Quel romanzo ce l’avevo, ma era in uno stato più che embrionale e presentava una protagonista – quella che poi diventerà Lèmon in “Maleuforia” – che si chiamava Fleur, un travestito di Genova alle prese con la definizione di sé. Spinta allora dalle parole incoraggianti, cominciai a lavorare con metodo. Decisi che volevo farne un romanzo vero e proprio, una romanzo di fiction in senso canonico. Da quella decisione al punto finale sono passati quattro anni. Scegliere Antonio Esposito come editor è stata una scelta abbastanza naturale seppur ponderata perché nel corso di quegli anni lui seguì tutto il mio percorso, dunque arrivò a conoscere la storia di Lèmon quasi quanto me.
Una storia di formazione e affermazione quella di Raffaele, il protagonista del romanzo, un personaggio assolutamente fuori da ogni canone. Partendo da lui, vogliamo raccontare nel dettaglio, per i nostri lettori forti di Satisfiction, chi sono gli altri protagonisti e i luoghi che animano questa narrazione, soffermandoci il più possibile sulla trama?
Da principio Lèmon non era un personaggio principale: la storia incorniciava altre vicende in cui lei era una figura collaterale, una spalla. Piano piano però, man mano che scrivevo, è diventata prepotente, sgomitava per appropriarsi della scena. Lèmon nasce maschio, nasce Raffaele, e però maschio non vuole essere. È povero, napoletano, senza genitori, e vuole risposte. Queste risposte, in parte, le trova nel bordello di Donna Sofia, una sorta di corte dei miracoli fatta di prostitute, preti spretati, vecchie sagge, invasioni di formiche e femminielli. Ecco, Raffaele cambierà nome – troverà il suo veronome – e diventerà Lèmon. Di fatto è proprio questo: un femminiello, una figura ancestrale e simbolica di una città come Napoli sempre a cavallo tra l’immacolato e l’osceno. Nel bordello incontrerà Linda e Cleo, femminielli come lei, due facce della stessa medaglia, o meglio: tre cuspidi di uno stesso triangolo. Lèmon è la parte drammatica della storia, Linda quella virginale e angelica, Cleo quella volgare, terrena, irriverente, il personaggio comico. Insieme impareranno l’amore e il sesso – si può dire sia un romanzo in parte erotico perché i toni sono espliciti e vengono descritte senza peli sulla lingua molte scene di sesso, sia etero che non – impareranno a mangiare il mondo. Altre figure fondamentali sono Maria, prostituita di matrice biblica – ispirata a Maria Maddalena – che introdurrà Lèmon nel bordello; il Cavaliere, un ricco vedovo posillipino che accoglierà Lèmon in casa e le farà da Pigmalione; Denise, il classico antagonista che viene odiato da tutti; e Imma, ultima ma non ultima, la Grande Assente, sua sorella.
Napoli, potenzialmente, sarebbe potuta essere un ulteriore personaggio, ma proprio perché non volevo che diventasse preponderante e oscurasse con il suo carattere da “prima donna” le vicende di Lèmon, ho cercato di imbrigliarla in spazi chiusi: la casa d’infanzia a Ponti Rossi, la casa di tolleranza di Donna Sofia, la villa a Posillipo del Cavaliere, il club di spogliarelliste di Mergellina sul finale. Lèmon è un cardellino: vive racchiusa tra quattro mura, della Napoli “aperta” che conosciamo tutti c’è un po’ dei Quartieri Spagnoli (tra l’altro un centro storico molto diverso da quello odierno, visto che il romanzo è ambientato negli anni ’80), un po’ della periferia, un po’ della zona del lungomare di Chiaia, qualcosa a Posillipo. Perché? Perché ambientare la storia a Napoli se Napoli non è la star? Il motivo è semplice: la star del romanzo non è Napoli, non è nemmeno Lèmon. È la maleuforia. Il nodo di queste pagine è il tentativo di definire l’indefinibile. Napoli mi serviva come scatola del tesoro, come fiocco sul pacchetto, come luogo fisico sede di questo sentimento sfaccettato che è la maleuforia, uno stato d’animo che caratterizza le persone che fanno della nostalgia e del raccoglimento e della dilatazione masochistica dei momenti cardine della vita quasi un dogma di fede.
Una voce già perfettamente riconoscibile la tua, con questa mescolanza di italiano e dialetto napoletano. Deborah, vogliamo andare nell’officina di lavorazione del romanzo, spiegando la scelta formale e il lavoro di editing fatto con Antonio Esposito, editor di Giulio Perrone Editore.
Un aneddoto divertente che raccontiamo speso io e Antonio alle presentazioni quando ci pongono questa domanda: la prima stesura di Maleuforia contava più di un milione di battute. C’è una spiegazione a questa piccola follia: quando ho iniziato a buttare giù la storia di Fleur, poi di Lèmon, non era mia intenzione pubblicare. O meglio: non era la mia priorità. Lo scopo era tirare fuori il peso che questa idea aveva nella mia vita, che non mi faceva dormire di notte. Dovevo renderla tangibile in qualche maniera, dunque ho scritto e scritto e scritto per anni senza metodo, senza preoccuparmi di andare fuori tema, di scrivere cose inutili, di cambiare spesso punto di vista (il romanzo è corale, dunque la decisione delle voci protagoniste passava anche da questa sperimentazione). Facile capire allora come mai questa prima stesura fosse tutto fuorché pronta. È stata una piccola follia anche proporre ad Antonio, come figura di editor, un manoscritto così. La mia fortuna va ricercata nel fatto che ha saputo fidarsi: la condizione per la pubblicazione era che dimezzassi le battute. Oggi Maleuforia ne conta circa 400mila, abbiamo completamente eliminato una terza parte che oggi non esiste nella versione pubblicata, abbiamo eliminato tutti i numeri dei capitoli, rendendo il discorso fluido, abbiamo scelto le cinque voci che raccontano la vicenda di Lèmon, stando attenti a non appiattire i toni e i modi di parlare, uniformato le parti in dialetto napoletano – sia nei modi di dire che nella trascrizione grafica, di modo che fosse comprensibile anche ai non napoletani – lavorato moltissimo sull’incipit. Penso di averlo riscritto almeno venti volte: il conflitto maggiore era se rivelare o meno che Lèmon fosse un personaggio che parla in medias res, ovvero un personaggio che è morto e che parla in forma di “spirito”. Non è uno spoiler perché nella prima pagina del romanzo dichiaro che Lèmon è morta. Ci siamo chiesti a lungo se fosse la scelta giusta. Alla fine abbiamo deciso di sì. Anche la figura di Imma, la sorella di Lèmon, è stata rivoluzionata: nella prima stesura aveva dei suoi capitoli, una voce, raccontava. Oggi Imma non compare, è per l’appunto la Grande Assente.
Lo stesso discorso dell’incipit vale per il finale: il romanzo ha struttura circolare, si chiude così come inizia, e volevo che fosse bruciante, una stilettata che lasciasse il segno. Non è stato facile. Se ci sono riuscita lo diranno i lettori.
Buona Lettura di “Maleuforia” di Deborah D’Addetta.