Egle ogni giorno parla con Zora. Le racconta la sua routine quotidiana fatta di acciacchi, crostate di ciliegie, caffè, piccole rivoluzioni domestiche. Egle è anziana, vedova, vive da sola in una casa sperduta nella “bassa”, l’orizzonte è una tela di campi dai quieti confini dove la sera si va a letto presto e la mattina ci si sveglia nella nebbia.
Egle vive in un tempo dilatato. Il suo sguardo si perde sulle cose più banali, la mente inaffidabile è un mangianastri che a volte si incaglia, avvolge i pensieri, mescola i ricordi con un presente di giornate sommesse dove ogni piccolo gesto può trasformarsi in un enorme traguardo, o una malinconica umiliazione.
La sua schiena è tutta un dolore, c’è il rischio costante di cadere dalle scale o, ancor peggio, dalla tazza del cesso e poi c’è “Coso”, quel gatto piombato nella sua vita all’improvviso che non la smette di farla dannare. A Egle i gatti non hanno mai fatto impazzire e in qualche modo sembra che Coso questa sua diffidenza la percepisca… o forse è solo molto vecchio, e stupido. Eppure Coso è importante, nonostante tutto, perché quella palla di pelo infeltrita è l’ultimo legame che le resta con Zora, oltre ai ricordi e un paio di confessioni che non ha mai avuto il coraggio di farle. Perché “tanto c’era tempo”, così si dice. E poi il tempo non c’è più stato. È rimasto solo quel gatto, Coso, appunto. Coso è il suo dono, «Ti farà compagnia», le ha detto Zora, l’ultimo giorno in cui si son viste, poi è uscita di casa. E anche dalla sua vita.
Così adesso sulla sua poltrona preferita c’è quel gatto pulcioso, un po’ rintronato, che si muove con lo stesso passo lento e sciancato della sua nuova padrona, sagome buffe in una routine fatta di gesti semplici, tradizioni e cruciverba per tenere allenata la memoria. Perché i ricordi sono importanti. I ricordi, a volte, sono tutto quello che resta. E quindi ben vengano le giornate tutte uguali, che poi uguali non lo sono mai, perché c’è sempre un nuovo problema da risolvere, Coso che non la smette di pisciare ovunque, i figli che chiamano preoccupati, i nipoti che si presentano senza preavviso a scompigliare il solito mantra “sveglia, colazione, radicchi, riposino, orto, cena, letto”. La vita che si muove e fa il suo ciclo, insomma, anche lì, in un paesino di poche anime che non si sono mai spostate se non di pochi chilometri, in quella vecchia casa scricchiolante con troppe stanze vuote. Giornate che volano rapide, altre in cui il tempo sembra un blocco di marmo da portare sulla schiena e la sera ci si ritrova a chiudere gli occhi sul divano con la televisione ancora accesa e la mente scappata in un ricordo che profuma di gnocchi fritti, salame e vino rosso. Come quel giorno in cui la madre di Zora è morta, ha scorreggiato e poi è resuscitata. Pare una cosa impossibile, vero? E invece i miracoli possono succedere anche lì, in quella terra impregnata dagli incubi delle bombe, del terremoto, delle memorie che ne hanno inciso i confini, le rughe e i sogni dei suoi abitanti.
E se il tempo della narrazione scorre lento, le pagine al contrario si leggono rapidissime. Stagioni di un anno che si fa metafora di una vita intera, raccontata attraverso capitoli brevissimi, pennellati con uno stile semplice, minimale, in un alternarsi di situazioni odierne e aneddoti passati dove le sagome di Egle e Zora, l’una introspettiva e scorbutica, l’altra più loquace e aperta alle pazzie mondane (come ogni parrucchiera che si rispetti), si alternano in un memoir agrodolce che ne esalta la profonda umanità.
Per il suo secondo approdo nel campo della narrativa, Mara Munerati sceglie quindi la via della semplicità, Le cose che restano è un tributo a un’epoca di riti e tradizioni sul viale del tramonto. Un affresco di luoghi, usanze e situazioni figlie di un territorio iconico che per anni ha ispirato le visioni di registi, poeti e scrittori, con la sua apparente, bucolica, tranquillità.
In un mercato editoriale dove tutto oggi è frenesia, velocità e sfacciata presenza, il libro di Mara si muove a piccoli passi e molta umidità.
Un’opera anacronistica e coraggiosa, elogio alla calma e ai gesti autentici di una pianura che ancora una volta dimostra di non essere solo un semplice luogo ma un vero e proprio stato dell’anima.
Stefano Bonazzi
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Le cose che restano
Mara Munerati
Clown Bianco
16 euro — 176 pagine