«A me non piace il calcio», disse. E mi è rimasto il pensiero, mi chiedevo sulla sua infanzia. Una infanzia della quale non so nulla, ma sospetto che fosse trascorsa in un paese senza calcio.
Perché quando sei cresciuta in un paese calcistico, la cosa cambia. Puoi odiarlo, detestarlo, evitarlo come la peste, o bramarlo, amarlo, appassionarti, svenarti, inseguirlo, dargli tutto.
«Mi piace» e «non mi piace» non bastano, non dicono niente. Puoi dire che non ti piace, non so, la palla a mano, ma di calcio si parla in un altro modo.
A me il calcio mi si infila da tutte le parti.
Dico calcio e mi vengono addosso tutte le domeniche della mia vita. I pomeriggi d’inverno seduta sulle grade guardano giocare i miei fratelli. Le notti d’estate e lo stadio illuminato, le nuvole di insetti attorno alle luci, mio padre e i suoi amici, il venditore di semi di girasoli, gli operatori radiofonici là in alto nella cabina, il bar, il profumo delle salamelle alle bracci.
Ricordo le urla scomposte dei più iracondi, insulti creativi, delicati, frecce avvelenate micidiali. La felicità di essere piccola in quel mondo di uomini di fianco a mio padre, riposare dalle mie paure in mezzo a loro e ai loro silenzi, interrotti da commenti di giocate e battute. Vederli arrabbiarsi con le venne del collo e la fronte a punto di scoppiare, un urlo per il tempo di un lampo, e poi tornare alla normalità e girarsi verso di me amabilmente e chiedermi: stai bene? hai bisogno di qualcosa? Certo che sto bene, penso mentre guardo l’erba verde illuminata dai fari, e gli omini che corrono addomesticando una palla capricciosa sotto un cielo stellato.
Dico calcio e vedo nonno Marcello, magro e elegante, seduto a gambe incrociate con la radio all’orecchio, la voce che parla veloce e chiaramente, accelerando il ritmo quando la giocata si fa interessante, quando ci sono passaggi veloci, corti, o quando qualcuno arriva superando tutti gli ostacoli alla porta e tira, non tira, lo mettono giù a tradimento. E allora fischio, cartellino giallo o rosso e i lamenti di quelli che si dichiarano sempre innocenti. Ma se arrivava alla porta, superando tutti, e era nella posizione giusta, e nessuno lo tirava giù, e calciava ed era gol, allora Gooooooool gridava la radio, un gol lungo e infuocato, potevi sentire la gola ardere e graffiare, ti veniva da alzarti, da saltare, da alzare le braccia, fare qualcosa per smaltire quell’urlo appassionato.
Non posso dire mi piace o non mi piace, come se fosse un gelato allo zabaione. Che non mi piace.
Posso dire che ho visto giocare Maradona, l’ho visto fare palleggi con qualsiasi cosa, fare porcate da bambino terribile e geniale, miracoli, e che gli voglio bene come a quelli che ti hanno fatto felice e nemmeno sanno chi sei.
Lui ipnotizzava come un dio mitologico, mostrando con semplicità ed eloquenza cose impossibili per qualsiasi mortale. Come Borges con la realtà e gli specchi e Dante con l’inferno e Vivaldi con la primavera e Arturo Martini con il desiderio. Maradona fa parte del quadro della mia infanzia e mi ha emozionato e commosso come solo certe opere d’arte lo fanno. E non so, da tutti i benpensanti che lo giudicano e criticano, chi avrebbe sopportato la condanna mondiale, la felicità feroce e la colpa costante e senza perdono possibile di essere Maradona, grande artista, e non perire nell’intento.
Mercedes Viola