“La Dama delle lagune”, edito da La Nave di Teseo, è in libreria. Nuovo romanzo storico di Marcello Simoni, ieri archeologo e bibliotecario, oggi prolifico scrittore culto di thriller storici, vincitore del 60° Premio Bancarella nel 2012 con Il mercante di libri maledetti, autore acclamato di bestseller tra cui la trilogia Codice Millenarius Saga e la Secretum Saga.
Fin dal titolo si desume il tratto metaforico in quel tempo narrativo ricorrente dell’autore quale è il Medioevo. Ambientata a Comacchio, allora Comaclum, la storia nella Storia si pone come “un conflitto tra giganti destinato a coinvolgere un piccolo insediamento di pescatori e produttori di sale nato tra le lagune generate dal fiume Padus. L’insula di Comaclum.” Dalla laguna “sconvolta dal fortunale” tanto da assumere le sembianze della “bocca dell’inferno” e “aprirsi con un gorgoglio di acque torbide capace di risucchiare l’anima e il senno di un uomo” al ritrovamento di un “monolito di metallo venato di grigio e d’azzurro, increspato come una vecchia pergamena coperta di incrostazioni, pezzi di radici e persino conchiglie” capace di infondere “un senso di antichità al semplice stargli accanto”. Una “teca” di piombo realizzata per custodire il bene oppure per sigillare ed isolare “le manifestazioni del male” : sono le domande che si pone l’abate del monastero dell’Aula Regia, Smaragdo, come gli altri protagonisti del libro in un vortice di segni enigmatici, di ombre a (s)comparsa e di ingordigie di potere.
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Mentre il guardiano e suo figlio si allontanavano da Santa Maria in Aula Regia, Smaragdo continuava a tenere gli occhi puntati sulla teca. Un rito di purificazione, pensava. Quando ancora non era stato ordinato monaco e imbracciava una spada al fianco di suo fratello Ricperto, aveva assistito al rogo di una grande quercia che le genti del torrente Scoltenna adoravano come una divinità silvana. Quello, fino ad allora, era stato per lui l’unico degno significato del concetto di purificazione. Distruggere e ricostruire. Edificare sulle ceneri. Come quando si era sradicato dal petto le ambizioni di guerriero e aveva costruito su una tabula rasa la sua rinascita spirituale.
Purificazione.
Un albero dato alle fiamme.
Possibile che un rito con l’acqua benedetta valesse quanto il fuoco? Che una semplice imposizione di sacre reliquie bastasse a estirpare da un antico involucro il seme del paganesimo?
Smaragdo aveva fede in Dio e nel potere della preghiera, ma sapeva pure quanto fosse durevole l’impronta del male. Sapeva che una spada, anche se mondata dal sangue, restava comunque
una spada e avrebbe sempre instillato in un uomo l’idea della morte e della violenza.
Cosa sarebbe successo, pertanto, se il ventre della teca avesse rivelato la presenza di oggetti legati all’idolatria pagana? O ancor peggio, se simili oggetti fossero stati di metallo prezioso?
Sulla scorta di quei pensieri, l’abate mosse lo sguardo sui caratteri incisi sulla superficie di piombo. Ora ricordava da dove proveniva la frase che poc’anzi gli era balenata nella mente.
… Trovò un testo che gli Antichi avevano inciso sulla pietra, ne lesse il contenuto e trovò che in esso vi era la dottrina dei Vigilanti…
Un passo del Libro dei Giubilei. Uno degli apocrifi più oscuri del Vecchio Testamento.
Alludeva a un uomo che, dopo il ritirarsi delle acque del Diluvio, aveva reperito delle tavole di pietra sulle quali erano scolpiti gli insegnamenti dei Vigilanti, ossia gli angeli ribelli, i padri dei giganti, i responsabili della corruzione della stirpe di Adamo. Sedotto dalla curiosità, quell’uomo aveva trascritto la dottrina proibita contenuta nelle tavole, nascondendola a Noè affinché egli non si adirasse, e così facendo si era macchiato della colpa di diffondere le piaghe della magia e dell’idolatria. Non ammoniva forse, quel passo, al restare sempre all’erta e a disfarsi di qualsiasi vestigio dei culti proibiti da Dio? Altro che usare l’acqua benedetta! si disse Smaragdo.
Avrebbe dovuto fonderla, quella maledetta teca, proprio come Mosè aveva fatto col vitello d’oro! Avrebbe dovuto, sì, se non fosse stato per qualcosa che lo tratteneva. Qualcosa che combatteva nel suo cuore, e al quale lui non sapeva ancora dare un nome. O meglio, non voleva.
“Pater…” si sentì chiamare. L’abate guardò alla propria sinistra e riconobbe padre Mellito. “Per il sangue di Giuda,” sfogò la sua frustrazione, “perché m’importuni?” Il monaco lo fissò disorientato. “Chiedo venia… M’era parso d’intendere che vi avrei dovuto raggiungere non appena foste rimasto solo…”
“Avevi ben inteso, in effetti,” si placò Smaragdo, fugando dalla mente le ragioni della sua inquietudine per far posto a pensieri di assai diversa natura. “Conduci il carro al chiuso, nello stallaggio, affinché il suo carico resti ben nascosto agli occhi di eventuali impiccioni.”
“Consideratelo già fatto.” “Poi,” si accigliò l’abate, “appronta la barca. Ho bisogno che mi accompagni in un luogo.”
“Quale luogo?” s’incuriosì Mellito.
“Quello in cui si custodisce l’unica sacra reliquia di Comaclum.”