“Almeno ora vi rendete conto di aver messo la persona sbagliata a guidare un mondo chiuso in una scatola, nella vita io devo imparare ancora tutto, non posso imporre carte e ordini che non comprendo, che mi fanno male”.
Il nuovo libro di Marco Lodoli, Il preside, inizia con uno stallo. Il preside del titolo si è chiuso dentro un liceo della periferia romana, armato di fucile, e tiene in ostaggio un alunno e una professoressa. Di fuori, la voce di un commissario che cerca di riportarlo alla ragione e una selva di gente che assiste a ciò che va succedendo. Le motivazioni del gesto non sono chiare nemmeno allo stesso preside, ma l’essersi rinchiuso lì diventa l’occasione per ripensare a tutta la sua vita, o meglio, a ciò che della sua vita ha fatto. In quella stessa scuola è stato prima alunno, poi professore, e infine preside quasi per sbaglio.
Un lungo monologo, quello del protagonista, che si snoda tra il presente e il passato. Due figure più di altre ne popolano i ricordi e i pensieri: Eugenio, il migliore amico, preside anche lui in un’altra scuola; e Carola, la moglie, amore di tutta la vita, che lo ha lasciato ormai molti anni fa. Ci sono anche i colleghi, ma sono figure che restano sullo sfondo, gente che non lo ha mai capito e che anzi ne ha condannato i gesti e le scelte, spesso giudicate bizzarre, quando non vere e proprie follie. D’un tratto il preside si ricorderà di un passaggio, un tunnel segreto che solo lui conosce e che lo porterà di fuori, in mezzo alla folla. Da lì potrà per un attimo guardare l’edificio assediato, ascoltare le voci che lo dicono un pazzo, gli ricamano addosso invenzioni, dicerie. Il preside si lascerà tutto alle spalle, andrà via. Ma sarà davvero possibile la fuga? In un batter di ciglia potrebbe ritrovarsi di nuovo nell’edificio, di nuovo bloccato.
Come sempre accade nei libri di Lodoli, d’improvviso il tessuto narrativo si sfilaccia, e l’andare del racconto, che fin lì aveva seguito una certa linearità, prende il passo della fantasticheria, dell’allucinazione. Dire dove finisca la realtà e inizi il sogno diventa impossibile, ma soprattutto: diventa inutile. Quelli di Lodoli non sono libri che cercano una ragione narrativa, sono derive in cui è bello perdersi. Se un significato c’è, va cercato in piccoli anfratti del racconto, in brevi, velocissime intuizioni.
Quello dei personaggi di Lodoli è sempre, mi pare, lo sguardo di qualcuno che si fa domande ma che raramente trova risposte. Il preside è un uomo che guardandosi indietro vede che le cose perdute sono più di quelle conquistate. A questo sentimento di perdita, si mischia anche, inevitabile, la consapevolezza amara che la vita non si può imparare di nuovo, che quello che è stato deve farselo bastare. E però proprio da questa consapevolezza viene l’amore per una gioventù meravigliosamente imperfetta – i ragazzi e le ragazze che tutti i giorni vede camminare nei corridoi, sedere tra i banchi –, per una vita in divenire che non può e non deve essere inscatolata dentro regolamentazioni assurde, numeri, voti.
Lodoli è sempre stato scrittore degli ultimi, degli emarginati, dei diversi. Inevitabile quindi che in un libro che ha come centro la scuola, la voce del suo protagonista diventi il grido disperato di chi chiede di abbracciare e amare l’errore, e non di perseguire la perfezione.
Il preside è un libretto esile e densissimo. Se ne esce un poco frastornati, ma certamente anche incantati da una lingua di una pulizia e una bellezza che hanno pochi, pochissimi pari nella letteratura italiana degli ultimi decenni. Cosa resta, alla fine? Restano le immagini e i suoni di una prosa più vicina alla poesia che alla narrativa, e ancora di più rimane la sensazione di aver appena letto un grande, struggente atto d’amore.
Edoardo Zambelli
Recensione al libro Il preside di Marco Lodoli, Einaudi, 2020, pagg. 104, euro 14.