“Sono andato per giardini per respirare, a volte per leggere un libro, qualche volta per smaltire un dolore o a baciare una ragazza al tramonto. Spesso per lavorare.”
Le tavole di Marco Petrella sono semplici. Il tratto è naif, i colori elementari, il quadro bidimensionale.
Eppure: il tratto è elegante, nei colori squilla una musica di fondo, l’inquadratura ha profondità cinematografiche.
I suoi disegni infatti non puntano, come per la maggior parte dei cartoonist, solo alla narrazione. Puntano a qualcos’altro.
Forse nemmeno lui ne è consapevole. Tutto diventa più evidente in quest’ultima prova: “Si muove la città”, edizioni Quinto quarto, un’autobiografia romanzata sull’epoca in cui Petrella è diventato ed è stato giardiniere del servizio giardini di Roma. Un’occasione per rivivere la sua giovinezza: musica, cultura e mode tra la fine degli anni 70 e gli ormai mitici 80; il lento mutare della capitale.
Ma questo breve sommario non rende conto di quell’elemento, quel “qualcos’altro”, che si incontra tra le pagine, ed è molto difficile da nominare.
Nel raccontare, Petrella non si affida unicamente al disegno ma porta a compimento una vocazione alla multimedialità, al collage e al patchwork, a lungo coltivata. Nel libro si affollano fotografie, documenti e reperti (biglietti di concerto, locandine, vinili, spille), fogli di quotidiani, brani di diario recuperati o reinventati, scarabocchiati a penna o battuti a macchina, mappe, stralci di storyboard. Anche le illustrazioni non sono uniformi: a carboncino o a colori, lasciate allo stato di bozza e poi ripetute nella forma definitiva. Mentre si legge si percepisce di attraversare la fabbrica del suo work in progress, come si attraversa il decennio, con tutto il suo rumore di fondo. Sembra quasi di leggere una postilla al Week-end postmoderno di Pier Vittorio Tondelli, un ultimo racconto residuo.
Roma viene guidata da due sindaci innovatori, il critico d’arte Giulio Carlo Argan e il comunista Luigi Petroselli, il periodo più buio degli anni di piombo è alle spalle e c’è voglia di tornare a uscire, riappropriarsi della città, viverla; si susseguono i concerti: gli Smiths, i Talking heads, Keith Jarret, Frank zappa; e poi i libri, i miti che arrivano ancora degli Stati Uniti, i grandi scrittori, le riviste e le fanzine; i graffitisti a Palazzo delle esposizioni, Keith Haring a spasso per Roma e la Woodstock italiana, quel festival dei poeti a Castelporziano, che ha segnato una generazione di aspiranti artisti ed è stato rievocato infinite volte: in documentari, romanzi, mostre fotografiche. E no, Patti Smith alla fine non venne.
In questa carrellata di amarcord entra il giardiniere, con il suo lavorare devoto e le sue scoperte a occhi spalancati. Ricorda Chance Gardner, il giardiniere analfabeta del film di Al Ashby (e prima del romanzo di Jerzy Kosinski), interpretato da Peter Sellers. Ha la sua ingenuità, la sua purezza. Si prende una sgridata dai colleghi più anziani perché durante una pausa si fa beccare a leggere un libro su una scala; si stupisce dei meravigliosi lavori che gli toccano: mettere a dimora talee di rose arrivate da tutto il mondo, grattare l’erba dal ciglio dei viali a Colle Oppio, censire gli alberi nelle strade; sente che il suo lavoro contribuisce alla rinascita della città, in un momento di speranza.
E’ un piccolo cinema, quello di Petrella, fatto con strumenti minimi, inquadratura dopo inquadratura, campi lunghi, primi piani, panoramiche; la colonna sonora, sembra di sentirla: il rock, il jazz, gli improvvisi e prolungati silenzi.
Ma quello che si racconta, alla fine, è pochissimo. Qualche impercettibile cambiamento: un’amicizia che diventa un amore; un amore che finisce, a cui si allude appena; un lavoro che si trasforma di volta in volta, a seconda del luogo di destinazione; una città che cambia, nello spazio, a seconda del giardino da cui la si guarda; e nel tempo, con i sindaci che si avvicendano, gli eventi che la animano.
Proprio al centro del libro, in due pagine, Roma è una cartina, di quelle per turisti. Evidenziate, in una specie di riduzione fiabesca, le aree verdi dove ha lavorato il giardiniere (e con lui chi legge): il Roseto, Colle Oppio, il Circo massimo, Parco Aranci; poi il Tevere e quasi nient’altro, oltre al cielo e a una statua di Marco Aurelio.
Così Roma torna ad essere eterna.
“Fissando la realtà mutevole quasi con gli occhi imbambolati di Buster Keaton, cioè con sostanziale umorismo… la immobilizza in visioni che sembrano sfuggire alle leggi del tempo, e che quindi appartengono per definizione al passato, così da far morire di nostalgia anche nel momento stesso in cui accadono… Questo senso concomitante del passare del tempo e della sua sostanziale immobilità… è tipico della poesia.”
È Pier Paolo Pasolini che scrive dei Sillabari di Goffredo Parise (altro libro votato a giocare con le categorie del “semplice” e del “minimale”). Ma la citazione è utile per trovare l’ingrediente segreto di cui eravamo in cerca.
E Marco Petrella sembra infine esserne consapevole, quando, a pagina 69 del suo libro, dopo aver raccontato del disastroso abbattimento di un platano, finito in un ruzzolone dei giardinieri davanti a una scolaresca divertita, sente il bisogno di inserire una scheda sui poeti che, come lui, hanno provato affinità per i giardini, da Emily Dickinson con i suoi erbari a Cees Nooteboom, che studia e scrive in un giardino di Minorca, in Spagna.
E in mezzo, tra i poeti realmente vissuti, infila anche Chance Gardner, il giardiniere analfabeta del film di Ashby.
Filippo Golia