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Marco Risi. Il punto di rugiada

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Il punto di rugiada è un istante di metamorfosi: quando l’aria calda e umida incontra una superficie fredda, si trova costretta a rivelare ciò che fino a quel momento ha tenuto nascosto. In questo incontro, l’aria cede, si raffredda, e ciò che prima era puro potenziale – il vapore – diventa realtà: gocce d’acqua che testimoniano la transizione da uno stato all’altro, in una danza tra ciò che è e ciò che diviene.

Questo fenomeno atmosferico dà il titolo all’ultima opera di Marco Risi, premiata ai Nastri d’Argento con il Premio al Miglior Soggetto a Marco Risi, Riccardo De Torrebruna, Francesco Frangipane e Enrico Galiano e il Premio Biraghi ad Alessandro Fella, – che ha interpretato con estrema sensibilità ed espressività di sguardi il ruolo del protagonista Carlo – , un film-poesia il cui motore sta nell’incontro tra gli anziani e i giovani, tra il caldo e il freddo perché avvenga il passaggio tra l’illusione e la verità della vita.

Questo in particolare si riflette nell’interazione tra i due protagonisti principali, Carlo (Alessandro Fella) – un giovane ricco e viziato, perso in una vita di eccessi e alienazione –, e Dino Rimoldi (Massimo De Francovich) – un anziano e celebre fotografo tormentato dal pensiero della morte – , che si incontrano nella casa di riposo Villa Bianca, dove Carlo viene mandato a svolgere i servizi sociali, e che diventa l’occasione per entrambi di rimettere in discussione le proprie esistenze.

Un mondo nuovo

Una corda, due mani scavate dalle rughe che si muovono nell’oscurità: la pellicola inizia con una musica d’archi e sassofono che guida le inquadrature di dettaglio in cui si intravede una corda che viene legata in nodi per poi essere posta attorno al collo di un anziano, che si scoprirà essere Dino, in un tentativo suicida, che però fallisce perché la maniglia cede, e si stacca dalla finestra. Nella scena successiva, lo spettatore viene immerso nella trama del film: un Carlo con lo sguardo svuotato, tormentato dal rimorso di aver procurato, da ubriaco e sotto effetto di droghe, un incidente che ha sfregiato il volto della ragazza con cui viaggiava in auto, e Manuel (Roberto Gudese), un ragazzo di umili origini fermato per spaccio di droga, vengono portati a Villa Bianca. Entrano nella stanza del direttore, le cui pareti sono costellate da rappresentazioni simboliche delle mappe della Terra, come per indicare l’ingresso dei due ragazzi in un mondo nuovo, in cui devono imparare l’arte del servizio verso l’altro, il diverso: gli anziani. A guidarli in questo nuovo universo è la bella e rigida infermiera Luisa (Lucia Rossi) che appare turbata alla vista di Carlo.

Da qui parte l’infinità dei racconti degli ospiti di Villa Bianca – interpretati da un cast straordinario di attori del passato che comprende oltre al già citato Francovich, Eros Pagni, Elena Cotta, Ariella Reggio, Luigi Diberti, il comico Maurizio Micheli e la splendida Erika Blanc –, i quali si rivelano in una magica delicatezza nei loro piccoli attimi quotidiani. Gli anziani, inizialmente visti dai due giovani come un peso e come esseri con handicap, vengono presto riscoperti nel barlume dei loro occhi e nel loro forte e profondo legame, di fronte all’avanzare della morte, alla vita.

Al contempo, Dino provoca Carlo con il suo sarcasmo tagliente e talvolta cinico, insegandogli l’arte della compassione e dell’ascolto e aprendogli man mano gli occhi sulla sua esistenza. È da notare come il personaggio di Dino sia uno splendido tributo di Marco Risi al padre Dino Risi, considerato uno dei massimi registi della commedia all’italiana, che con eleganza, umorismo e amarezza ha saputo restituire sullo schermo gli impulsi della società degli anni Sessanta in continuo cambiamento, fotografando la realtà, individuale e collettiva, in tutte le sue sfumature. È proprio il rapporto non semplice tra il regista e il celebre padre che è stato protagonista del romanzo di Marco Risi Forte Respiro Rapido, che viene ripreso in vari punti nel film, sia per quanto riguarda la crisi esistenziale affrontata dal padre in fin di vita, che il viaggio tanto desiderato e mai realizzato in Africa – che rimanda al film di Dino Risi In nome del popolo italiano, e soprattutto il tema della guerra in casa.

Il punto di rugiada e la poesia

Nel film, inoltre, il tema della morte si intreccia in modo intimo a quello della memoria. Alcuni degli anziani di Villa Bianca soffrono di Alzheimer, in particolare il poeta Federico (Luigi Giberti). Federico, che si logora nel ricordo inconscio della morte della moglie Maria, non riesce più a riconoscere le persone che popolano la sua vita e non ricorda più nulla, nemmeno di essere poeta. Eppure, sono le sue poesie a far sopravvivere la sua identità, diventando un’ancora per cercare di afferrare ciò che sfugge. I suoi versi – che non sono altro che le meravigliose poesie di un’essenzialità nuda e penetrante di Nelo Risi, zio del regista e una delle voci poetiche più interessanti del secondo Novecento –  vengono scoperti da Manuel, portandolo a una comprensione dell’umano nella sua fragilità, a partire dai versi: « Sapessero / che disarmato è il cuore / dove più̀ la corazza è alta / tutta borchie e lastre, e come sotto/ è tenero l’istrice» ( Nelo Risi, Sotto i colpi da Pensieri elementari, Lo Specchio Mondadori, 1961).

Sarà proprio il giovane a decidere di mantenere viva la produzione poetica di Federico dopo la sua morte perché continui ad essere un dono per tutti, a partire dalla lettura pubblica della poesia I lupi, che riprendendo l’immagine del cuore come paese straziato in San Martino del Carso di Ungaretti, rivela l’anima dell’io lirico paragonandola a una città deserta e dolente, attraversata dai lupi, simboli di un male invisibile: eppure il poeta vive nella consapevolezza che il suo dolore si trasforma nelle rose rosse dell’arte che nasce dal sangue della sua sofferenza, divenendo bellezza e speranza per il mondo là dove tutto sembra distrutto. «La mia città deserta/ un nero vento invade, / la mia città dolora / all’alba delle case // Il muro non misura / più di tre metri, il sonno /di quel ragazzo steso / a lato è un peso eterno. // I lupi sono scesi / visitano le strade, / autunno o primavera / non mutano paese // La mia città deserta/ ha occhi di rovina, / le rose del suo sangue / c’è già chi le coltiva» ( Nelo Risi, I lupi , da L’esperienza, Edizioni della Meridiana, 1948).

La seconda porta

Tutti i personaggi del film sono infatti abitati da un male, una battaglia interna: tutti sono sulla soglia di una porta.

«Sai che cos’è la cosa interessante di questa camera? Le due porte. Perché ha messo due porte? Me lo sono sempre chiesto. Da una si entra dall’altra dove si va? », chiede Dino a Carlo contemplando una riproduzione del celebre quadro di Van Gogh La camera di Vincent ad Arles, che viene poi mostrata allo spettatore in un’inquadratura instabile, che oscilla in assi obliqui, tipica scelta di regia che sta a indicare un senso di turbamento e ignoto. Il giovane non sa rispondere e il resto del film appare come una ricerca per trovare una risposta a quella domanda. Gli anziani camminano verso la seconda porta che conduce attraverso la morte alla vita in Cielo, mentre i giovani, camminano verso la porta che è la seconda vita che inizia quando si comprende di averne una: Carlo, Manuel e Luisa rappresentano l’inquietudine di una gioventù che si stordisce pur di non soffrire, che si veste di una corazza che diventa una prigione costruita con le proprie mani nel tentativo di proteggersi dalla vita vera che invece salva, la vita all’insegna dell’amore che può far male, perché le persone che si amano possono morire o andarsene, ma che dona la felicità piena di un senso profondo di umanità.

Questo cammino lo si percorre nel meraviglioso teatro di sguardi, forse i veri protagonisti della pellicola: i volti vengono spesso isolati dal resto della scenografia tramite l’effetto bokeh, tecnica fotografica che va a sfocare lo sfondo mettendo a fuoco il soggetto attraverso la manipolazione della profondità di campo e dell’apertura dell’obiettivo, dando spazio all’espressività degli occhi, all’opera d’arte mobile di rughe e movimenti facciali.

È in particolare negli sguardi di Carlo che lo spettatore comprende la sua metamorfosi: quegli occhi inizialmente vuoti e pieni di sonno per le serate di discoteca e droga con le sue false amicizie diventano man mano gli occhi della commozione nel rivedere negli anziani quella stessa guerra domestica e incomunicabilità che c’è tra lui e suo padre, nel prendere finalmente coscienza dei suoi errori nella scena onirica di memoria lynchiana in un viaggio in macchina attraverso una luce verde e nel comprendere il dolore insanabile di Dino, il quale ha un disperato desiderio di decidere la propria morte prima che essa lo logori piano piano e si sente come il vetturino del racconto di Čechov, che, inascoltato da tutti, non può che raccontare la sua sofferenza alla sua cavallina. È l’affetto per Dino e l’amore per una donna che salveranno Carlo, permettendogli di perdonarsi e superare la paura che lo allontana dall’aprire la seconda porta che lo conduce all’ignoto di un finale aperto che auspica il futuro di una vita nuova.

Roland Barthes scriveva che le vere opere d’arte sono quelle che non sono un punto di arrivo, ma un punto di partenza per infiniti percorsi e così è Il punto di rugiada di Marco Risi, caratterizzato da una fotografia elegantissima che ricorda i film francesi e che danza sulla delicatissima colonna sonora firmata da Leandro Piccioni. È un film di una bellezza rara e di incredibile profondità e tenerezza, in cui il dramma viene raccontato con la leggerezza della commedia, in cui la vita straripa e ride pur in un ambiente di morte e tormento interiore, perché dalla sofferenza della città deserta nasca la bellezza delle rose rosse, in un canto corale di speranza, di amore e di meraviglia di fronte alla semplicità dei piccoli gesti quotidiani che rendono l’umanità artista della propria fragilità.

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