Fazi Editore riporta in libreria, dopo quasi un secolo dalla sua unica venuta in Italia, il più grande successo letterario di Margaret Kennedy La ninfa costante, con la traduzione di Sabina Terziani. Il romanzo della scrittrice inglese del Novecento conobbe anche una serie di fortunati adattamenti cinematografici e teatrali: il film del 1943 Il fiore che non colsi diretto da Edmund Goulding, lo sceneggiato televisivo RAI del 1957 diretto da Mario Ferrero, tre adattamenti teatrali del West End. Il culto dell’arte aleggia e modella il Circo Sanger, cottage austriaco dove il compositore Albert Sanger, la sua terza moglie e i figli di più madri vivono e crescono insieme. Musicisti e artisti provenienti da tutta Europa trovano ospitalità nell’egloga intellettuale sino all’improvvisa morte di Albert. Vira così la trama dalla voce altisonante della famiglia Sanger all’amore tormentato di una delle figlie, l’adolescente Teresa, per il compositore Lewis Dodd, commensale della stessa famiglia. In un’atmosfere bohemien palpabile, tanto che divenne il primo romanzo di un genere talvolta chiamato “boemo”, il dramma psicologico si esprime immancabilmente nell’innocenza di sentimenti profondi, nelle occasioni perdute, nella complessa ricerca di un equilibrio inconciliabile tra smoderatezza e rispettabilità “borghese”.
Claudia Caramaschi
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Sul valico c’era una tale tranquillità che Teresa ritrovò subito la pace interiore. Da lassù non si vedevano né alberi né segni di presenza umana perché la vallata fino a Weissau era nascosta dalle nuvole. Sopra la sua testa e intorno a lei soltanto cielo aperto, e la luna. Sotto quella luce le cime svettavano spoglie ed essenziali. Teresa si trovava nel punto in cui il sentiero proseguiva pianeggiante per un po’ sul crinale, poi si tuffava nella vallata, nera come l’inchiostro. Da quell’oscurità emergeva un mormorio di cascate che colmava di suoni l’abisso nella notte. Rimase a guardare la valle e si sentì decisamente meglio. Lungo il sentiero c’era una piccola croce di legno a marcare una sorgente, e a poca distanza, una nicchia di pietre costruita l’anno prima da Paulina e Sebastian. Sostenevano che doveva servire per meditare e pregare; cosa strana perché nessuno dei due sembrava dedito a simili attività. In ogni caso costruirla li aveva tenuti allegri per tre settimane. Le tempeste invernali l’avevano buttata giù; non rimaneva altro che un mucchio di pietre accanto al crocifisso con la sua tettoia a una falda. Teresa pensò quanto le sarebbe piaciuto costruire non tanto una nicchia ma una casetta vera e propria dove vivere tutto l’anno, dove rifugiarsi per guardare le tempeste di neve, il disgelo, i fiori che a primavera spuntavano tra l’erba. In estate avrebbe suonato musiche graziosissime con la trombetta, per spaventare a morte la gente che si arrampicava fin lassù zaino in spalla, e nessuno avrebbe scoperto da dove proveniva la musica. Salì su una collinetta, il punto più alto che poteva raggiungere in pochi passi, e guardò il panorama. L’aria era limpida per chilometri e chilometri, e la vista era semplice da descrivere: catene montuose in successione tese verso un cielo terso e vuoto. La luna le tingeva di bianco e nero, il cielo era privo di colore.
Teresa aveva bisogno di quella semplicità, le piaceva. Si incontravano sempre troppe cose in giro; persone, colori e rumori le riempivano la testa di idee e la confondevano. Spesso aveva l’impressione di non riuscire a vedere il mondo con chiarezza; lassù invece c’era così poco su cui posare gli occhi che finalmente l’atto della visione poteva essere dominato. Si voltò a guardare il Königsjoch, quasi sospeso sopra la sua testa, e lo fissò a lungo. Sembrava quasi di poter toccare quei dirupi di nuda roccia, quei nevai, e il profilo liscio e spoglio della vetta, eppure sapeva che era tutto molto distante. Rimase a fissare la montagna con avidità, cercando di imprimersela nella mente, per sempre. E fu rapita in una sorta di estasi. Nacque in lei un’idea, una speranza ardente che le tolse il respiro: se fosse riuscita a vedere una sola cosa ma in modo completo, avrebbe visto Dio. Quel pensiero la commosse così profondamente che si gettò a terra, distesa sull’erba piegata dal vento, e contemplò la volta celeste nell’attesa immobile, nella tensione di tutto il suo essere verso la singolarità del pensiero. Non successe nulla. Dopo qualche minuto si sentì stanchissima e gelata. Il vento che le soffiava tra i capelli veniva dai nevai. Cominciò a considerare con maggiore clemenza l’esasperante famiglia che le era toccata in sorte e decise di tornare allo chalet. Si fece forza e affrontò la discesa, ben consapevole della tremenda stanchezza che le attanagliava le ossa. Più in basso, lungo il sentiero, c’era un uomo, perso nella contemplazione delle montagne, come se avesse scoperto il segreto che lei non era riuscita ad afferrare. Era Lewis.
Gli lanciò un bacio affettuoso, e considerò quanto le era familiare la forma della sua testa vista di spalle. Sarebbe riuscita a disegnarla a occhi chiusi, per tutte le volte che era rimasta a guardarlo mentre dirigeva sinfonie che lei non sempre ascoltava con attenzione. In quel luogo, però, non sembrava più solitario di quanto fosse nelle sale da concerto affollate. La contemplazione durò ancora qualche istante poi si interruppe, e Lewis si mise a camminare concitatamente, inciampando, a tratti quasi correndo. Teresa conosceva il suo tormento, e lo compativa. Siccome faceva parte di una famiglia di artisti considerava quell’entità implacabile che si impadroniva di loro come una gran disgrazia. Stranamente lei era l’unica della tribù a esserne immune; sapeva che mai e poi mai la creatività l’avrebbe spinta a simili eccessi sfiancanti. Voleva soltanto poter osservare il mondo, e le sue osservazioni le dicevano che comporre musica era una malattia atroce e dolorosa. Compativa il suo amico ogni volta che ne subiva l’assalto quasi come se si trattasse di un incidente in cui si rompeva una gamba. Quella cosa era una maledizione nascosta, una licantropia ereditaria sempre in agguato, pronta a balzare loro addosso per divorarli. Alla radice di tutte le loro disgrazie familiari c’era quella cosa. Nella sua concezione del mondo, Teresa assegnava alla creatività più o meno lo stesso posto che il demonio poteva occupare nella mente di una ragazzina più addottrinata di lei. «Povero Lewis», mormorò. «Ecco cos’ha! È una settimana che lo vedo ansioso come una chioccia». Immaginò che non doveva farsi scoprire e fece per imboccare il sentiero sul fianco più distante della collina, ma lui la individuò e subito la chiamò, poi si mise a correre in salita verso di lei, di fatto impedendole di andarsene alla chetichella.