“I giorni pari” di Maria Caterina Prezioso (Arkadia Edizioni, 2024 pp. 200 € 16.00) esce nelle librerie il 29 novembre. “Perché se li nominiamo, e raccontiamo le loro storie, i nostri morti non muoiono.” (Luis Sepúlveda, La lampada di Aladino e altri racconti per vincere l’oblio). L’epigrafe introduce già la spiegazione emotiva del libro e precede il significato profondo della scrittura lirica e della tensione poetica racchiuse nell’arte letteraria dell’autrice. Maria Caterina Prezioso intreccia il susseguirsi affannoso e coinvolgente di storie e fatti, concentra, nel fluire del vissuto, l’infinita possibilità della narrazione pura, quella che compone verso un orizzonte biografico rimandando la spirale di parole e pensieri nell’unità distinguibile dell’identità umana. L’autrice allestisce una trama evocativa degli avvenimenti, nel contesto della Seconda guerra mondiale e del dopoguerra, congiunge l’accordo morale, sociale e il vincolo affettivo delle protagoniste Sara e Silvana, unite nella loro empatia, nella solidarietà del loro personale percorso di evoluzione e di emancipazione, nella complicità di intenti e nella condivisione, nella percezione dell’esperienza della vita complementare, nell’integrazione appassionata oltre la discordanza delle contaminazioni personali, le interruzioni impreviste e le sospensioni inesorabili delle proprie biografie.
Maria Caterina Prezioso dedica al lettore un romanzo solido e resistente, contraddistinto da una trama tenace e risoluta, in cui si avvicendano l’oscurità e l’opacità delle vicende e la testimonianza della contraddizione impenetrabile, nel malinconico e invisibile interrogativo sulla natura umana, nello sguardo responsabile sulle ragioni degli incontri e della loro avvincente complicità, nella necessità indispensabile di ogni infelice influenza della cronaca, nella funzione provvisoria e minacciosa della fatalità. Il libro abita l’effetto rivelatore della sconfitta e di ogni successiva sopravvivenza, compie metaforicamente un viaggio realistico, spesso anche contemporaneo, sulla resurrezione di sentimenti di umanità, nella maturità di una sensibilità logorata dalla spaccatura della raffigurazione storica.
Le protagoniste, Sara, ebrea sottratta alla Shoà, in cerca di protezione contro i pericoli materiali e morali, e Silvana, fragile di salute e disagiata per la povertà, si riconoscono e si ritrovano nella connessione di due destini, accomunate dal legame insondabile dell’amicizia e dalla combinazione di tensioni e di inquietudini consumate nel cuore del cambiamento e nell’incantesimo della giovinezza che può rendere immortale il ricordo e la sua trasformazione. L’autrice affronta la sequenza descrittiva delle stagioni brutali e crudeli in Italia e nel mondo, attraverso la lente sottile ed erosiva dell’eredità del fascismo, della guerra, lungo la scia disgregante dello spavento e del turbamento, disegna il tratto comunitario dei personaggi, ammantati dall’universale sentire, nel coraggio della speranza e nel pudore delle illusioni. La scrittura di Maria Caterina Prezioso è misurata e scrupolosa, puntuale nell’inequivocabile attitudine a definire lo scandire del tempo e il susseguirsi delle circostanze, elabora una intessitura catartica ed efficace, in cui si ascolta, rapiti, l’eco della memoria, la commozione dei luoghi dell’anima. “I giorni pari” delineano le vite smarrite, perse, ma rinsaldate grazie alla quotidiana sfida, libera dalla sottomissione e dai compromessi, fondono la tenerezza di una evocativa sorellanza con l’asprezza degli ostacoli, preservano la solidarietà delle decisioni, ripercorrono, nell’intraprendente esortazione del messaggio salvifico, l’autenticità, naturale e struggente, di una storia collegata alla toccante e coinvolgente generosità del cuore. L’entusiasmo di essere artefici della propria fortuna, segue, nella consapevolezza, il suggerimento di riuscire a sostenere le difficoltà e l’incognita del futuro, incarnando l’incrollabile impegno nella lotta per rimanere in vita, sempre.
Rita Bompadre
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«Come stai?»
«Così e così Silvana. Oggi va un po’ meglio, sono riuscito ad alzarmi. Ma tu non senti freddo amore mio?»
Era settembre. Un settembre caldo e vellutato. Si stava così bene al sole.
Fu allora che lo guardai. Manlio indossava un maglione che gli pendeva sulle spalle magre e il suo sorriso era spento. Respirava a fatica e si portava spesso al viso un fazzoletto bianco a detergere sudore dalla fronte.
Il mio dolce amore stava morendo e io continuavo a Il mio dolce amore stava morendo e io continuavo a far finta di nulla. A sperare che quella vita non si spezzasse.
Eppure quasi un anno di sanatorio avrebbe dovuto insegnarmi qualcosa.
Domani o domani l’altro sarebbe potuto toccare a me. Avevo sperato che l’amore che lui provava potesse essere la spinta giusta… che i sentimenti si potessero tramutare
in salute, in guarigione. Perché Manlio che tanto mi amava doveva morire?
Mi scrisse una lettera qualche giorno prima di andarsene. Mi chiedeva perdono e mi pregava di non piangere troppo e di volare via libera e felice.
Non sei un uccellino da gabbia amore mio. Speravo di costruire per te una bellissima voliera dorata dove poter vivere felici per sempre, ma così non doveva essere. Non era destino. Ti ringrazio per tutti questi mesi di vita. Mai sono stato più felice, ma ora è tempo che tu voli via. La porticina è aperta, puoi spiccare il volo. Io rimarrò
ancora, per quanto ancora non so. A guardarti. Con il viso fisso al cielo a mirare il tuo volo di rondine che si dirige al sud.
Il 20 ottobre del 1941, era inizio sera, Manlio spirò. Fegiz mi fece chiamare e mi concesse il permesso di vederlo. Mi accompagnò nel reparto uomini. Era ancora caldo quel piccolo amore mio e gli occhi aperti fissavano l’alto. La bocca era come alla ricerca di aria e pareva ancora volesse dire qualcosa.
Fu Fegiz con delicatezza a chiudere gli occhi di Manlio e a portarmi fuori tenendomi per mano.
Non so per quanti giorni stetti a letto. Come tutti avevo spesso qualche linea di febbre. La febbriciattola era chiamata, una febbre tipica della tisi che raramente ti abbandonava, ma quella che mi era venuta era una febbre da cavallo.
Per il professor Fegiz era una febbre nervosa. Non riuscivo a piangere per la morte di Manlio. Ero in preda ai brividi, ma cercai lo stesso di raccogliere le forze per tirarmi
su dal letto.
Ada mi guardò storto, poi rise in modo da attrarre la mia attenzione.
«Senti non prendermi per matta, ma tu non puoi fare così ogni volta che ti muore qualcuno.»
La guardai come avesse veramente perso la ragione.
«Domani sarà una settimana che Manlio è morto quindi hai assolto il tuo lutto e ora puoi alzarti per favore da questo letto? Oh, insomma Silvana, ma tu lo sai quanto
campi? Nessuno lo sa, ma la vita continua con o senza di noi e pare che di vita ne abbiamo una sola.»
Ero solo una ragazzina, non avevo ancora quindici anni, ma dentro il Forlanini si moriva o si cresceva velocemente, non c’era molta scelta: o morire, lasciarsi andare,
oppure combattere e provare a resistere.
Crescere, per noi dentro il sanatorio, significava guardare in faccia la morte e tentare di vivere con tutti i mezzi a nostra disposizione, ognuno di noi alla maniera sua.