La figura centrale stava senza paura nel fluoro del sole.
Lo dicevano tutti, com’è bella. Suscitavi rispetto. Sui verdi appezzamenti
i tuoi sonagli.
L’alloro del giardino è stato il primo a dare il suo consenso. Poi, è venuto il silenzio
necessario, l’offertorio del cielo a primavera, i suoi colori
saturi
e il segno indelebile che fa la luce
dove il collo regge
la testa come un organo solare. Una corona, il regno abbandonato
del pensiero. Ci vuole poco
a credere alla natura.
L’amore modifica la biologia. Comincia
dal modo di piegare la testa
per guardare le cose
da vicino. A occhi chiusi
i bambini. Ti rapprendi nell’ombra della stanza. Sul tuo volto
un reticolo come di stella.
Il profumo dell’ambra, oro del mare e lacrima
dell’albero. O meglio, concrezione
dei capodogli. Patologia cetacea, macrocefala. Stagnola
dell’inanimato. Una pepita
nera. Muschio animale e fieno. L’interno messo a nudo
di un corpo gigantesco. Cera alba secreta
per scivolare contro le mucose intestinali senza attrito di scaglie
cornee, becchi e ossa
di calamari. Un ammasso ceroso esposto all’aria
matura galleggiando per gli oceani
come un dettaglio nudo, vivo al centro.
Uno sterpo che nasce dal corpo, una presenza umana non inerente
posa la mano aperta sul tavolo
in una muta supplica. Io giro intorno all’asse del tuo corpo
come in luoghi insidiati dall’acqua. Di sera
l’acqua è piena di croci
senza ornamento, è metallo battuto che contiene
il granito ottuso delle murene. Sono
la disperazione della creatura che sta per essere abbandonata. Sono
la vastità degli spazi
dove disporre le rovine
e il mistero del buio nella tua immagine.
L’amore si misura a cose fatte. Non sapevi che fosse, eri sincera. È continuo
l’attrito delle tende. Lo sfregamento delle stoffe su
forcelle d’acciaio
dice ancora, davanti alla finestra Tu
come stai? Hai pace?
Roma, 11 maggio 2020
Maria Grazia Calandrone