L’ultimo lavoro di Maria Grazia Calandrone splende d’amore.
La lunga lettera d’amore, appunto, come riporta l’autrice in seconda di copertina, «è il racconto di una incolpevole caduta nel Disamore, dunque di una cacciata, di un paradiso perduto».
L’abbandono. La perdita. Questa è la trama, la ferita che è diventata scrittura. Non c’è molto da dire, se non tentare di scrivere la sensazione che provi leggendo il vero farsi arte. Una solitudine del tutto privata, soggettiva, una sofferenza che non avrebbe parola senza la sensibilità di forgiare l’inspiegabile in un canto universale. Noi siamo quella bambina, quella donna che riesce a fare del lutto un’opera d’arte.
Ne parlava Jacques Lacan quando scriveva della Cosa che ad avvicinarvisi può incenerire. Il dolore, che affrontato senza mediazioni ridurrebbe al silenzio, è contornato, incorniciato dalla scrittura e ne siamo protetti.
Il libro è questo: insegna a parlare di noi, senza parlarci addosso, del nostro intimo soffrire, ci guida verso la capacità di guarire senza dimenticare o rimuovere. Viene in mente l’arte criptica di cui parla Mario Perniola. A proposito dell’elaborazione del lutto egli propone una terza soluzione, differente sia dal melanconico ritiro dal mondo sia dalla sua elaborazione: il cristallizzare il dolore di una perdita dentro una cripta al nostro interno. Cristallizzare il dolore e farlo splendere. Perché abbiamo paura del dolore? perché cerchiamo di edulcorarlo? Calandrone ne fa poesia.
Che forma ha la malinconia? La poetica oggettiva e la nitidezza del linguaggio traghettano l’abisso. Sono istantanee di un dolore che sembra farsi quasi metafisico, pur nutrendosi di carne e corpo. Per questo la storia, che non è solo narrazione ma pure evocazione di luoghi e tempi perduti, procede per piccoli delicati assaggi. Sulla superficie ghiacciata di un lago che potrebbe sbriciolarsi da un momento all’altro e sotto la quale scorgiamo intricate trame affettive. Rese però con la chiarezza di chi ha forse intravisto l’ambito traguardo della serenità. La forma della malinconia permane come resto opaco, che rende umana questa radiografia dei sentimenti. C’è insomma qualcosa che non si fa dire, un pudore che preserva il nucleo dell’affetto profondo.
Eppure Calandrone ci dice tutto restando un passo indietro, aspettando sulla soglia l’abbraccio dell’ospite che entra nella casa-libro, accolto. Mi tornano in mente le parole della filosofa spagnola Maria Zambrano quando ribadisce l’importanza di restare sulla soglia dell’altro, per accoglierlo. Questo è quello che fa Calandrone. In punta di piedi entra nella nostra immaginazione e ci racconta una storia, terribile, emozionante. E l’emozione è spesso rabbia, che però ci viene mostrata senza esserne aggrediti.
Sentivo di una scrittrice il cui motore per scrivere è la rabbia, non credo sia una saggia scrittrice. La rabbia, la delusione, la sofferenza, l’Innominabile si fa parola, sì, ma ci muove con passione e ci incoraggia. Calandrone ci protegge. «E tu, che leggi//ridi, rovescia in riso/la medaglia dell’Innominabile!».
In un periodo in cui si ostenta la falsa vacanza dall’io, ecco un’autrice che, pur raccontandosi, si sottrae al fantasma del narcisismo. Calandrone ci sente, avverte nelle sue stesse pagine le dita che scorrono, gli occhi che scivolano e la fanno rabdomante rispettosa di chi entra ospitato in casa sua.
Poesia, si è detto. Evocazione. «Cosa possiamo opporre, poveri mortali, alla memoria del corpo?». E come non meditare sull’effimero, glorioso, resto umano? «La materia è uno scherzo ben riuscito». Emily Dickinson è la sorella di questa traccia scritta.
Ma poi la scrittura è capace di ironia, di distacco e di addentramento nel segno del dolore: «non l’adozione, bensì la guerra del Vietnam, fu il vero cruccio della mia prima infanzia». Ecco, appunto, la capacità forse innata di farsi da parte, di mettere a tacere il proprio desolante destino per aprirsi all’altro, alla tragedia che sta intorno. Persino un episodio mondiale diventa metafora, azione, pratica di un atteggiamento, di una postura fisica e mentale di farsi da parte, sottrarsi all’io.
«La febbre altissima deforma la mia percezione delle dimensioni della realtà e del mio corpo fra le cose reali». Il corpo gettato tra le cose del mondo, è causa di amore e risveglio. Questo mondo è nel libro e procede per istanti che sono «un bastimento carico di eternità».
È un invito alla vita e alla storia Splendi come vita. Il suo andamento mi ha ricordato quell’altro capolavoro di profondità e leggerezza che è Gli anni della francese Annie Ernaux. Temi come l’amore e la propria vita privata (soprattutto se privata di) sono davvero un classico, dunque sempre nuovi, se è desiderante la struttura in cui si installano: «il ragazzino si lecca le labbra, ha già un’ombra sul labbro superiore». Un’ombra della crescita, l’ombra di chi scrive. A ben pensarci c’è un’ombra, un resto che non si lascia eliminare, catturare dalla parola, un endecasillabo, forse, impronunciabile; che però mantiene sospesa tutta la musica rotta dei fantasmi. E non si ritrae. Si lascia ascoltare ma non si addomestica. In questo senso – e alla luce dell’ipotesi freudiana intorno all’elaborazione del lutto, come si è accennato sopra citando Perniola – l’arte e la sua ombra: o la malinconia perenne di chi non riesce a superare creativamente l’abbandono, con conseguente sviluppo paranoico-depressivo per cui gli altri esseri umani diventano la causa del proprio malessere, o l’elaborazione del lutto e dell’abbandono, per cui l’amore, il desiderio, rivolti un tempo alla persona amata e perduta, vengono canalizzati su oggetti esterni, altri.
Ma si può assumere una posizione mediana in cui il dolore del lutto permane dentro di me, nella cripta, senza che nessuno ne sappia nulla, celato allo sguardo altrui – insomma la narrazione del lutto e della perdita avviene in una maniera tale da non costruire una “storia”, una trama che giustifichi il trauma: si narra senza raccontare e in questo modo si differisce la storia senza differenziare il contenuto e renderlo plot o, appunto, narrativo. Infatti non si narra il dolore della mancanza, non si fa lirica dell’io, ma si passeggia intorno alla mancanza, si scivola come una piuma attorno al buco dell’abbandono e della morte.
Materiale incandescente che si lascia avvicinare. Non c’è narrazione, è vita. Qui il prodigioso.
«Sono la guardia del corpo di mamma» e i ruoli invertono anche la polarità del testo. L’autrice, pare leggerci e non viceversa. Non si lascia prendere dal suo ruolo, non siamo noi ma ella ad accogliere, come con Mamma: «Mamma, non essere triste. Ci sono io».
Dovrebbe essere il contrario, no? Così è stato stabilito: il lettore legge lo scrittore perché «accade che diventiamo quello che gli altri pensano che siamo». Questa è una trappola da fuggire, qui chi legge è letto.
Le cose, poi: «Gli oggetti sono bianchi e indifferenti. Gli oggetti non sanno niente». In questa poetica oggettiva gli oggetti diventano cose, cause, motori di ricordo, di sensazioni. Dalla polvere si trae il gesto che la solleva, come sangue che sgocciola da mani perfettamente bianche e senza ferite.
La scrittura, per questo, cresce, come oggetto e nelle mani di chi la usa, muta, silente, cambia. Nella sezione Niente come la vita (il Collegio di Suore), mi sembra che il fraseggio assuma altro colore e salga a galla la consapevolezza di una poetica più precisa. L’autrice ripercorre il transito dell’esistenza anche modulando la scrittura come se le fasi, la crescita, fossero della scrittura stessa: «ho trovato la pietra filosofale, l’officina alchemica dove ogni dolore viene ridato al mondo come bellezza». E si ha l’impressione che la scoperta si stia facendo davanti ai nostri occhi.
Ora. Il corpo che scrive non dice di quando ancora non sapeva che avrebbe scritto, il corpo sta scrivendo e crescendo e la scrittura partecipa, si adegua. Fotografia dell’istante. Che essendo stato, è. La scrittura, mi par di capire leggendo questo libro di ascolti, è anche un ibrido umano, un organismo senziente che ci trascina o ci strattona dove sa e dove noi non sappiamo. Pure, tra ciò che siamo ora e che abbiamo scordato, la scrittura chiude proprio un circuito elettrico: «il corpo del paziente chiude un circuito elettrico formato da lattine, anima e corpo».
Calandrone scrive che «di mestiere ipnotizzo persone e le faccio tornare come nuove» e scrive di lei che è stata. Ma io, qui e ora, sento di essere paziente di una scrittura che, appunto, ode, audisce e induce ipnosi.
Questo sentire «non lo cambi nemmeno con le minacce». Non è solo resilienza, ma una forza sacra che viene da altrove e nella scrittura di Calandrone si fa segno imperituro e salvifico di ogni nostra brutta storia: «devo trovare il modo di sfrondare il guscio, l’astuccio, il carapace, la concrezione mortale, che contiene ciascuno e, così contenendo, ci divide».
«Sui muri resta il chiaro dei grandi mobili asportati, sormontati dal vuoto profilo grigiolino dei quadri»: questo è il disegno del passato che è oltrepassato, andato nel futuro. Il passato è sempre oltrepassato. Nella scrittura liscia della pelle e dei muri. Nella chiarezza degli occhi scuri, nello sguardo delle cose, «gli spigoli puliti delle cose».
La storia che abbiamo ascoltato è nostra: «siamo questa paura, questa fatica e questo desiderio di comprendere e non lasciare nulla di intentato. Siamo la volontà di non rimpiangere e una terribile semplicità».
La vita è splendida, e tu – mi è parso udire la scrittura di Maria Grazia Calandrone – pensaci quando l’abisso ti sfiora, e lasciati andare, ricordati di te e splendi come vita.
Maria Grazia Calandrone, Splendi come vita, Ponte alle Grazie 2021