[…] Di questi giorni, una stazione è normalmente un cantiere; si provano a ricostruire palazzi, monumenti, famiglie, anime e umori distrutti dalla guerra; e naturalmente si prova a ricostruire pure la ferrovia, che solo quindici anni fa è stata uno dei bersagli preferiti dei bombardamenti di amici ed ex amici, nemici ed ex nemici, che dall’alto sbriciolavano l’Italia. Certo, il tempo passa, quell’enorme boato che generava macerie è distante oramai tredici anni. Tredici anni che a volte sono un lampo, tra pochissimo saranno addirittura gli anni Sessanta. […] (pag. 10).
Dopo la guerra le vite vanno avanti ma restano le ferite, i cantieri nelle strade, le angosce e le speranze di tre personaggi di diverse età che Maria Sole Tognazzi racconta in questo suo romanzo d’esordio , mentre affrontano, ciascuno a suo modo, con le proprie paure e speranze, le trasformazioni che il tempo imprime alle loro esistenze. Viaggiano tra segnali esterni, esperienze vecchie e nuove, difficoltà e possibilità che restituiscono nuova luce ai passaggi dell’esistenza, chiariscono improvvisamente o confondono inaspettatamente idee e decisioni. Il loro passato ha sedimentato ansie, desideri, voglia di nuovi traguardi. Amici, credo che sia meglio per me cominciare a tirar giù la valigia: è l’incipit (pag. 21) di una nota lirica di Caproni, “Congedo del viaggiatore cerimonioso” dove il poeta-viaggiatore, detto cerimonioso perché gentile e beneducato, giunge alla fine della propria esistenza, cioè al momento dell’estremo saluto portando con sé la sua valigia, simbolo del bagaglio esperienziale e, prima di scendere al capolinea, diventa più indulgente con se stesso e con gli altri.
Il racconto comincia proprio da una stazione, quella di Roma Termini dove i vagoni rallentano, singhiozzano, stridono, si accomodano senza fretta, escono dal buio delle gallerie. Chi può dire di non essersi mai trovato in un tunnel, circondato da un’oscurità tangibile che impedisce di vedere una possibile via d’uscita? […] Venir fuori da una galleria è un po’ come risorgere, è tirare il fiato dopo essersi trattenuti venti secondi sott’acqua. E se quando esci trovi la luce, ti pare che quella galleria abbia diviso l’inferno dal mondo dei vivi. L’esistenza è un cerchio che abbiamo iniziato a disegnare ieri. In qualsiasi modo, oggi o domani, non ci resta che chiuderlo […](pag. 12).
Ripartire, arrivare, agganciarsi ad un segmento di esistenza nuova. Provare a immaginare il futuro, banchina non ancora raggiunta, affaticati dal peso del bagaglio che ci portiamo dietro. È la vita, con le sue stazioni, le sue sfide. Dal 1997, anno in cui firma la sua prima regia con il cortometraggio Non finisce qui, la regista ha sempre sentito l’esigenza di raccontare, di esplorare la forza e la fragilità umana , l’ avventura dell’esistenza che scorre seguendo in modo del tutto naturale l’andamento altalenante delle crisi e delle successive conquiste. Il racconto presenta tre vicende umane con un “quieto narrare”, senza artifici, attraversando temi che hanno caratterizzato molti suoi lavori cinematografici: la solitudine che non deprime (piuttosto forma di resistenza e rovesciamento del luogo comune), il cambiamento e le trasformazioni obbligate, l’ amore e le sue complessità (desideri, incomprensioni, crisi e paure), l’inquietudine esistenziale, la fragilità, i traumi generatori di demoni che condizionano i rapporti con l’altro. I protagonisti di Ancora ci coinvolgono nelle loro dinamiche umane , ci fanno intravedere orizzonti , attivano nuovi processi percettivi e psicologici ; in ognuno di loro c’è qualcosa di noi, che attraversiamo la vita sempre alla ricerca di qualcosa che ancora non conosciamo, legati ad un filo che ci lega al tempo che vive in noi, pronti a cogliere una possibilità di ricominciare, di rinascere. Io una volta fui ragazzo e ragazza, cespuglio e uccello, e muto pesce nelle onde. La natura cambia tutte le cose, avvolgendo le anime in strane tuniche di carne. La citazione di Empedocle all’inizio del racconto, ricorda che rinascere è possibile. C’è una visione ciclica che si autoregola; il nascere e il morire non esistono, ci sono solo aggregazione e disgregazione. La prosa di Tognazzi è asciutta nel suo delineare personaggi comuni che sembrano muoversi in un’apparente banalità del quotidiano, seguendo lo sciame di un’umanità in viaggio, brulicante sotto il cielo settembrino di Roma, attraversato da stormi di uccelli che disegnano sorprendenti e continue forme geometriche. Il tono del racconto è armonioso, la parola calzante, le luci e i colori focalizzano , come in un set cinematografico,aspetti diversi della vita , stati d’animo, ansie segrete, in un confronto-scontro di inquietudini.
I dialoghi tra Lea e suo marito ci introducono in uno dei temi del libro, il senso della relazione amorosa: […] Il loro rapporto ha una probabilità elevatissima di finire male. Ma loro, tutto sommato, ce l’hanno fatta, ne stanno venendo fuori illesi, hanno evitato la palude, i loro traumi del conflitto, il principio emotivo della difesa della propria postazione. Scelgono una tregua, il rinvio amichevole di un negoziato che fatalmente sarà riavviato […].
Lea vive una doppia esistenza, mai totalmente catturata dalle emozioni di un amore clandestino che sovrappone e confonde tra slanci e scrupoli. Grumi dolorosi rischiano di frantumarsi ad ogni incontro con il suo amante. La sua scelta non viene presentata come volontaria ma come formazione graduale di un universo che spesso percepisce come distante, contraddittorio ed estraneo […] Si ha tante volte anche il diritto di essere contraddittori, di non sapere dove andare, di trovarsi al famoso bivio ed esitare, con la voglia di prendere entrambe le strade […](pag. 90).
Anche Pierre è un personaggio inquieto, in bilico tra ostacoli inspiegabili, forze alle quali non riesce a resistere. Vorrebbe ripartire, risalire sul treno che lo ha condotto alla stazione Roma-Termini ma ha bisogno di questa città: c’è una specie di forza di gravità a trattenerlo, una forza oscura alla quale in nessun modo riesce a sottrarsi. Non sa nemmeno se restare è ciò che veramente desidera, ma sa che non può evitarlo. È disorientato, eppure quel disorientamento gli procura una sottile euforia.
Rita lavora in fabbrica. Ha un carattere duro, sempre in difesa, ostile; si ritrae spesso come un mollusco nella sua conchiglia ma la condivisione di momenti difficili ridurrà le distanze che solitamente stabilisce con i personaggi incontrati.
Il passaggio pedonale che taglia il Tevere, le cui acque si ingrossano sotto il salto basso del ponte, è uno degli scenari dove i destini dei protagonisti mostrano la necessità di compiersi attraverso l’amore e il dolore come mezzi di conoscenza e al tempo stesso possibilità di sbocco salvifico. Gli innesti della trama hanno come perno la graduale presa di coscienza dei personaggi, le loro verità interiori che passano attraverso bilanci esistenziali in cui s’incuneano eventi imprevisti che sconvolgono la tessitura delle consuetudini. Accade spesso che il sussulto dell’ignoto sancisca la possibilità di una revisione delle traiettorie esistenziali, la possibilità di compiere nuove scelte.
Il racconto a più piani delle alterne vicende di Lea, Pierre e Rita è dunque teso a cogliere le infinite sfaccettature degli accadimenti in un ritmo narrativo che sente l’esigenza di innesti tra vita vissuta e tentativo di renderle giustizia con il linguaggio. L’autrice non manca di sottolineare qualche sfumatura psicologica che può introdurre il lettore nelle sofferte dinamiche mentali dei suoi personaggi ed è qui che la componente introspettiva raggiunge il tono della confessione più autentica .
I temi del romanzo (nato come sceneggiatura scritta insieme a Ivan Cotroneo e Doriana Leondeff venti anni fa) ricordano la sua ricerca cinematografica , il carattere della sua narrazione, dalla quale trarre uno spunto di riflessione e di verità sulla complessità del reale.
Anche il campo semantico si articola e si coagula intorno alla spontaneità di una prosa che crea “scene” dove attualità e passato s’intersecano e si scontrano di continuo.
Il cuore è sempre il sito degli scioglimenti enunciati da traiettorie che si avviano verso nuovi corsi […] Le vite si rigenerano. I destini hanno l’urgenza di compiersi, e non basta a fermarli la distanza degli anni, non bastano le barriere del tempo e dello spazio. Il filo dell’amore rende le esistenze eterne, lega i destini. Sa spingersi al di là delle vite, e al di là delle morti […]. (pag. 158)
Rossella Nicolò