Dal 12 maggio la casa editrice Nutrimenti porta in libreria, con la traduzione di Marco Cavallo, Mia diletta di Marieke Lucas Rijneveld, vincitore del prestigioso premio letterario dei paesi fiamminghi De Boon 2022. Lo scrittore, considerato un talento della letteratura olandese, con il suo romanzo d’esordio Il disagio della sera, fortemente autobiografico, edito in Italia nel 2019 sempre da Nutrimenti, si è aggiudicato l’International Booker Prize 2020, a soli ventinove anni, diventando il più giovane autore a conquistare il premio per il miglior libro tradotto in inglese e pubblicato in Gran Bretagna e in Irlanda. E lo stesso si è dedicato precocemente anche alla poesia: con la sua prima raccolta Kalfsvlies, più volte ristampata, nel 2015 ha ricevuto, per il miglior debutto poetico, il C. Buddingh’-prijs; con la sua seconda Phantoommerrie ha ricevuto l’Ida Gerhard Poetry Prize 2020 ed è stata nominata per il premio Herman de Coninck per la poesia 2020.
Una scrittura senza pausa, turbolenta che dispiega la confessione e l’ossessione di Kurt, veterinario dall’età “biblica di sette volte sette”, per la sua “celestiale diletta” quattordicenne. Due adolescenze che si sovrappongono, tra passato e presente, senza soluzione di continuità in una campagna olandese estiva, con incursioni culturali scomode da Gerard Reve a Kurt Cobain, dalla Lolita di Nabokov a La nausea di Sartre, da Jan Wolkers alla serie di Herry Potter di JK Rowling. “E lì sul bordo della fossa “rabbrividisce il protagonista e vaga senza sosta insieme a quella ragazza, schiacciata dall’opprimente vita rurale, nella morbosa ricerca di una fuga, “insieme”, al vuoto e alla vita.
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Estate 2005
Mia diletta, te lo dico subito: in quella intransigente estate avrei dovuto asportarti col coltello per gli zoccoli come il tessuto morto di un flemmone dal derma di una zampa, avrei dovuto fare spazio nel solco dello zoccolo in modo che il letame e la sporcizia scivolassero in mezzo e nessuno potesse infettarti, forse avrei dovuto solo rasparti un po’ e levigarti con la smerigliatrice, detergerti e asciugarti con la segatura.
Santo cielo, come ho potuto dimenticare l’avvertimento ricevuto durante gli studi di veterinaria nelle lezioni sul pareggio degli zoccoli e le malattie della corona, le laminiti, la malattia di Mortellaro, o dermatite digitale, e come ripetessero fino alla nausea che bisogna stare attenti a non ferire il vivo del piede, non danneggiate mai il vivo del piede, dicevano ogni volta, ma la mia debolezza, la mia manchevolezza!
In quella ostinata estate tu stavi in posizione podalica come un vitello nella sala parto dei miei degenerati desideri, io ero il complice della follia, non sapevo come fare a non desiderarti, tu, la divina prediletta, e quante volte, accovacciato tra i vapori emanati dalle mucche, avvertivo la tua ineludibile presenza poco più in là, sull’erba appena falciata e circondata d’arabetta, dove passavi ore sotto il pero inclinata sul manico della tua candida chitarra a provare una canzone dei Cranberries, e io speravo ardentemente di dovermi occupare di una dislocazione dell’abomaso o di dover asportare qualche polipo in modo da poterti restare vicino più a lungo e sentirti ricominciare da capo quando pizzicavi la corda sbagliata o prendevi una nota acuta con quella tua voce squillante, angelica, e poi ti fermavi un istante e io immaginavo che ti soffiassi via un ricciolo dal viso con le guance rosse, un ricciolo ribelle, e ah, come dolcemente soffiavi, come un bimbo su un dente di leone sfiorito, cantavi di carri armati, bombe, fucili, guerre e in tutto ciò che facevo pensavo a te, sì, pensavo a te quando indossavo un guanto lungo arancione trasparente per il parto, lo cospargevo con un lubrificante veterinario, con il VetGel, e scivolavo dentro la vagina di una mucca a duplice attitudine, o quando afferravo le zampe di un vitello, così viscido e ancora avvolto nella placenta, e le tiravo piano al ritmo delle contrazioni, carezzando con l’altra mano il fianco umidiccio della madre per calmarla, quando le sussurravo piano o snocciolavo dei versi di Beckett, che qui non ripeterò, nessuno è sensibile a essi, tranne te e queste mucche, e ogni volta desideravo più intensamente che mi girellassi attorno quando indossavo il camice da veterinario, lo abbottonavo e mi mettevo al lavoro, allora speravo che mi sorridessi con la stessa dolcezza con cui sorridevi ai robusti stallieri che a mezzogiorno, attorno al tavolo della cucina, si nascondevano dietro una pila di panini imbottiti di uno spesso strato di burro e salsiccia affumicata, ma quelli non osavano occuparsi troppo di te, eri un tipo di animale che non avevano studiato, non avevi quattro stomaci, ma uno solo, insaziabile, e io ti conoscevo fin da piccola, ti conoscevo perfettamente, anche se eri troppo giovane per essere desiderata da me e al tempo stesso troppo vivace e impaziente per sopportare altro paternalismo e condiscendenza, e capivo dal tuo atteggiamento che volevi sfuggire all’autorità dei genitori, alla fattoria dove eri cresciuta che era intitolata a De Hulst, dal nome di W.G. van de Hulst, l’unico scrittore che tuo padre conoscesse e che aveva letto e riletto fino a consumarne i libri, di cui quando era di buon umore ti leggeva qualche pagina, e poi sognavi di essere un confetto e che ognuno andasse in sollucchero e volesse assaggiarti, e che dovevi difendere il tuo corpo zuccherino dal re, dai golosi, dalle formiche, e forse avrei dovuto prendere sul serio questo sogno, ora che ci penso mentre lo scrivo, anche se non ne avevo intenzione, badavo più al tuo atteggiamento che al tuo sogno, a come stavi cercando di liberarti, non solo della fattoria ma anche delle stalle lì accanto, c’era amianto nel tetto e tuo padre si rifiutava di farlo bonificare perché è Dio che decide a chi viene il cancro e a chi no, non dipendeva da qualche vecchio pannello ondulato, e cercavi di liberarti anche di Lui, volevi sottrarti a Dio e al tempo stesso temevi la Sua ira e il Suo giudizio finale, e a volte a letto sussurravi dal salmo 143 “Signore liberami dall’angoscia”. Ma più di tutto desideravi liberarti di tuo padre, affettuoso ma molto severo, lunatico e pieno di fisse, dal quale volevi allontanarti e che tuttavia volevi continuare a coccolarti, come facevi con Bullebak, l’intrattabile toro, potevi accarezzarlo solo se aveva appena mangiato o montato una vacca, e a volte lo prestavate ad altri agricoltori ricavandone un compenso che finiva in un salvadanaio sul camino della cucina e con quei soldi andavate in vacanza, sì, Bullebak finanziava interamente le vostre vacanze in Zelanda, e a ogni cosa che vi dava, dai panini imbottiti ai giornalini di Paperino, tuo padre diceva: grazie tante Bullebak.
Avvertivo il tuo distacco soprattutto nel tono brusco e caparbio della tua voce quando tuo padre voleva chiuderti la zip della tuta, non per proteggerti dal freddo della nebbia mattutina, ma per avere ancora l’occasione di toccarti, tu, la bambina che ogni giorno di più si faceva troppo grande per le sue mani ruvide, piene di rughe e di calli, e allora guardavo le mie, che erano abbastanza grandi e forti per stringere saldamente le tue, avevo già tenuto un tempo mani infantili, ma era diverso, erano quelle che si afferravano a me, mentre ora ero io che volevo stringerti, intrecciare le mie dita alle tue, lì dove intorno al medio portavi un anellino di plastica con una coccinella sopra, che ti aveva dato l’ortodontista quando avevi saputo che avresti dovuto portare un apparecchio con la fascia elastica esterna ed eri rimasta molto colpita da quell’orribile notizia, così hai potuto prendere un regalo dalla scatola delle sorprese e hai scelto quell’anello un po’ troppo largo; starei ore a disegnare col pollice cerchi sul palmo della tua mano come un ruminante affetto da cenurosi. E durante la pausa caffè ascoltavo distrattamente i racconti di tuo padre, che era un misto di Mick Jagger e Rutger Hauer da giovani, quando si accalorava parlando del suo bestiame, dei campi asciutti e dell’argine in secca, dicendo che il raccolto sarebbe stato magro se le ombrellifere erano troppo afflosciate per coglierle e metterle in un vaso sulla tavola, io annuivo genericamente, non c’era un vaso in tutta la fattoria e quelli che non coglievano piante né fiori da portare in casa erano spesso angosciati per il raccolto, anche quando la stagione era buona e fruttuosa, e annuivo di nuovo quando diceva che le mucche amano il cibo monotono, che sono animali abitudinari come lui, e che a volte faceva loro ascoltare la musica classica, Chopin o Vivaldi, e poi la sera il latte era più cremoso, al momento giusto abbozzavo un sorriso, ma avrei preferito sapere tutto di te, volevo parlare di te come parlavamo dei bovini, di quando andavano in calore e diventavano capricciosi, e guardavo verso il prato dove tu e tuo fratello saltavate sul tappeto elastico e facevate a chi toccava il cielo per primo, a chi per primo arrivava a fare il solletico a Gesù, tu volevi farlo morire di solletico e dopo avresti raccontato che al tempo dei Romani usavano il solletico come tortura, che legavano la vittima e poi gli facevano leccare la pianta dei piedi da una capra per tutto il tempo, e mentre saltavi sempre più in alto i tuoi capelli biondi danzavano e brillavano come spighe di grano sul tuo viso delicato; ti vedevo stancarti presto del gioco, per poi rivolgere lo sguardo in lontananza, al di là dei cespi d’insalata che luccicavano nell’orto e dei porri, affamata di una vita che era lì pronta per te, oltre The Village, volevi andartene di qui come la maggior parte delle ragazze e dei ragazzi della tua età che col passar del tempo voleva disertare il fronte casalingo, alcuni sono diventati soldati e sono entrati nell’esercito per poi tornare con nostalgia a mimetizzarsi in The Village, ma tu eri certa che non avresti mai sofferto di malinconia, tutto quello che possedevi era nella tua testa, e allora non potevo ancora sapere che non avevi un luogo che per te fosse casa, anche se eri affezionata alla fattoria De Hulst fino al midollo e già solo l’idea di partire, di oltrepassare in bicicletta Prikkebeensedijk con uno slalom tra le pietre sconnesse, e di piantare in asso tuo padre, la sola idea ti faceva tornare con un sospiro a giocare sul tappeto elastico, no, gli addii non erano il tuo forte, so bad, avresti detto in seguito, e me ne ero accorto presto vedendoti indugiare imbronciata il sabato mattina, quando venivano a prendere i torelli per portarli al macello, allora stavi lì ad accarezzarli e a grattarli dietro le orecchie e a sussurrare parole incomprensibili, solo in quel momento ho capito che ti portavi dentro la perdita, avrei tanto voluto farla sparire con degli antinfiammatori, o meglio ancora colmarla, sebbene non scambiassimo mai una parola, anche se in quegli anni facevi in modo che mi avvicinassi di tanto in tanto quando inseminavo o esaminavo una vacca e mi portavi un secchio con dell’acqua calda e un pezzo di sapone verde per lavarmi le mani sudicie di sangue e sterco, e mi porgevi un vecchio tovagliolo a quadri, ma non spuntavano parole sulle tue belle labbra, che avrei tanto voluto toccare, come facevo con gli animali affetti dalla lingua blu, tu non avevi la lingua blu, eri sana come un pesce e molto affascinante, e allora sapevo già che sarei stato il primo uomo in vita tua a vederti come volevi essere vista, come una quattordicenne adulta […]