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Marina Cvetaeva, Sonecka

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Fatiscente la scena, giocosa e tragica la figura. Delle più buie l’ora: il 1919. Sullo sfondo la guerra civile, il freddo e la fame. Ma è da quella scura tela moscovita che Marina Cvetaeva, con la sua inconfondibile scrittura, fa emergere la luminosa e vibrante Sonecka (Sof’ja Evgen’evna Gollidej), l’attrice tutta struggimenti e paroline infantili del Teatro d’arte di Mosca, con cui intrecciò un rapporto tenerissimo e appassionato intuendone il destino breve, come in una presa d’aria che infiamma la richiesta di protezione: per la piccola Sonecka che desiderava solo amare, mai sazia di baci eppure frivola e detestata dai compagni, dalle compagne soprattutto, che mal sopportavano la predilezione che Stanislavskij le riservò, dapprima, per poi allontanarla, stanco dei suoi capricci. «E dal modo in cui pronunciava “morto d’amore”, era evidente che lei stessa moriva – d’amore per lui – e per me – e per tutto; Rivoluzione o no, razioni o no, bolscevichi o no – lei sarebbe comunque morta d’amore, perché quella era la sua vocazione – predestinazione». Ah, se avesse avuto un vecchio protettore, Sonecka, invece che struggersi per Jura, e Marina con lei, per quell’uomo che non sapeva amare, dotato solo di quella bellezza che è merce, senza mistero: «Nessuno – tranne il mistero in sé di una simile bellezza». Se solo Stachovič se ne fosse innamorato, sottraendola al giro crudele che la trascinava a fondo… «Come avete potuto lasciarla – a tutti, a chiunque, a uno qualsiasi di quei ragazzetti che così invano cercavate di educare». E invece, dopo la brillante stagione della sua Nastenka, Sonecka se ne va in provincia, sempre più misera, dimenticata e perduta; come è perduta l’irripetibile stagione della giovinezza quando, nel 1937, la Cvetaeva davanti al mare sulle coste della Gironde, mette mano alla ricostruzione di quel periodo, un’ora dileguante, restituendoci – a noi, a Sonecka un altro giro di vita e un ritratto superbo. «Proprio la miseria, il crollo di ogni certezza, l’ignoranza totale del futuro, sembravano eccitare l’ispirazione, la fantasia i sogni», scrive Serena Vitale nella Nota di postfazione (Sonecka, Adelphi, 2019, pp. 278, euro 14, a cura di Serena Vitale, traduzione di Luciana Montagnani). Se soltanto fosse così anche per noi, nei tempi ostili e scivolosi che stiamo attraversando, se si potesse opporre all’avanzata della marea di obliosa disillusione una stagione di fermento culturale che schiarisse l’orizzonte…

Sonecka morì nel 1934, Marina Cvetaeva , tornata in Russia, si tolse la vita nel 1941: tutto crollava. Rimangono però quelle parole e la resistenza che si trova quando non vi è altro da perdere. Il poeta che Marina Cvetaeva tanto sperava per la sua Sonecka era lei stessa: «Per Sonecka ci voleva un poeta. Un grande poeta, cioè: un essere umano grande come un poeta. Non ne incontrò nessuno. O forse, uno dei primi duecento Volontari antibolscevichi del 1918, a Novočerkassk. Uno qualunque di quei duecento. Ma nella Mosca del 1919 – non ce n’erano. Non ce n’erano più – su questa terra».

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