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Marina Visentin anteprima. Aurora

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Alle donne, alle loro paure, ai loro desideri./Alle donne che imparano a sopravvivere.” La dedica al libro, in uscita nelle librerie il 27 settembre, di Marina Visentin “Aurora” (Laurana Editore, 2024 pp. 288 € 18.00) introduce la fenditura dolorosa e inaccessibile di un’anima salva, nell’intreccio tortuoso e oscuro dell’animo femminile, nella necessaria e virtuosa esposizione al coraggio. L’autrice costruisce una trama accattivante e avvincente con protagonista Gemma Teodori, gallerista d’arte, apparentemente serena ma dominata dagli echi opachi di un’ombrosa e inconfessata vicenda personale, nell’intricato e opprimente fardello di un’essenza intima sospesa e lacerata dal tormento. Nonostante la protagonista scelga di rivestire la sua coscienza a difesa dalle ferite e dai traumi dal passato, l’appuntamento con un uomo misterioso Vittorio Fratti segnerà il suo destino, sfiderà reazioni enigmatiche e crudeli, la porterà a scontrarsi con un equilibrio compromesso, a superare l’intrigo del danno subito per tentare di riscattarsi e salvarsi.

Marina Visentin scuote la natura del romanzo giallo attraverso l’imprevedibilità degli eventi, declinati tra il senso di umanità e dell’indifferenza, rispecchia le caratteristiche di una narrazione indagatrice, mossa dall’osservazione dei fenomeni reconditi della coscienza, nello scrupoloso approfondimento delle emozioni e delle conseguenze prolungate che stimolano l’agire traducendo l’efficacia delle manifestazioni umane. Affronta la mutevolezza e l’instabilità dei sentimenti, la dimensione mentale della salvezza, le componenti cognitive e relazionali delle angosce, la rivelazione delle ossessioni. Il libro sorveglia il turbamento di ogni persuasivo e trascinante approccio con la visione dell’incognito, scruta il terreno inesplorato delle reazioni sconosciute, contiene il segno permanente e insistente dell’insinuazione. Marina Visentin decifra l’evoluzione dell’inquietudine con la sorprendente e imponderabile materia della fatalità del destino, commenta il presagio inesorabile degli ostacoli, delimita l’ostaggio della vulnerabilità nella consapevolezza della destrezza analitica, rielabora le scelte dettate da un cambiamento inesorabile in cui l’incertezza e la tensione seguono impazientemente l’evolversi delle situazioni, raccoglie l’eredità della suspense e l’improvvisa incredulità per i colpi di scena.

Il libro conserva pagine ricche di fulminee e inimmaginabili memorie dal passato, ricuce la dimenticanza e rende nota la segreta e sospetta intensità, incarnata dalla figura minacciosa di Aurora. Un romanzo dalla qualità visionaria, sconcertante, che abbraccia i complessi contraccolpi noir della conoscenza, dosa l’avvincente ritmo narrativo, ricco di emblematiche e simboliche sfumature, nelle suggestive interpretazioni di una storia da non svelare se non nell’accento degli abissi emotivi. Marina Visentin perfeziona lo sguardo sul mondo riprodotto, orientando una memoria visiva dall’effetto cinematografico, rende taglienti le parole e le risorse dell’intuito per scrutare gli squarci della mente e le sfumature impenetrabili di ogni spiazzamento, si confronta inevitabilmente con la natura perversa del male. Regala ai lettori una convincente storia, mantiene sempre teso e coinvolgente l’intreccio nell’impronta psicologica e nella padronanza stilistica, come scavo e cifra profonda della scrittura, immersa nelle pieghe dell’ineffabile corrispondenza filosofica, nella sua resa empatica.

Rita Bompadre

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La nebbia si mangia gli angoli delle case, cancella i ponti, attutisce i passi. Le facciate dei palazzi, nelle strade più strette, non riesci nemmeno a vederle, non c’è abbastanza spazio per inquadrarle tutte intere.

I miei passi li sento appena, nonostante i tacchi. C’è troppo silenzio, come se l’intera città avesse deciso di trattenere il respiro, rimanendo immobile, in ascolto.

Anch’io ascolto, il respiro fermo. Sento dei passi dietro di me. Mi blocco. Silenzio. Mi volto. Nessuno. Comunque, a chi potrebbe interessare dove vado io?

Un altro canale. Ponte Raspi, campiello dei Sansoni, calle del Volto. Dove diavolo sono? Perché non riconosco nulla? Come in una città estranea, nemica. Il mercato dov’è finito? Il ponte di Rialto dovrebbe essere qui, davanti a me. E invece non c’è. Non capisco.

Il respiro passa a fatica attraverso i bronchi, brucia in fondo alla gola.

Sempre più strette queste calli. Vicoli puzzolenti. I passi mi rimbombano nella testa. I miei passi. Non solo i miei. Ne sono certa, c’è qualcuno dietro di me. Non mi volto, affretto il passo. Rialto è lì davanti, sulla sinistra, ne sono sicura.

E invece no. Sbuco sul Canal Grande, ma la strada finisce su un pontile. Devo tornare indietro, prendere l’altra calle, se voglio arrivare sulla riva del canale e poi a Rialto.

Giro su me stessa, non prendo fiato, inciampo in un pezzo di selciato sconnesso, sento una fitta alla caviglia, il piede destro si piega di lato. Cado, questa volta cado. No. Agito le mani, le braccia, un insetto spaventato, ma riesco a rimanere in piedi.

Mi fermo un attimo. Prendo fiato.

Respira! Respira! Non dimenticarti di respirare, sennò è finita.

Un passo avanti. La caviglia fa male, ma non abbastanza da fermarmi. Un altro passo, un altro ancora. Una fitta sottile, un dolore che posso riuscire a ignorare. Almeno per un po’.

Ora a sinistra. È qui a sinistra che devo andare. Poi, dopo la curva, sono arrivata. Sono sulla riva, sicuro.

L’uomo me lo trovo davanti appena dopo la curva. Gli finisco addosso. Gli appoggio le mani sul petto, per evitare di cadere. Sento il freddo viscido del giaccone di tessuto impermeabile. Mi ritraggo come se bruciasse.

Ma dove corri? Cosa ti prende?” La voce è ruvida ma non sgarbata. È l’uomo del ristorante, certo, mi ha seguita. Ho paura davvero adesso.

No, non è lui, non gli somiglia nemmeno. È un ragazzo, i capelli lunghi che spuntano da un berretto di lana, come orecchie da cocker.

Ti sei persa?”, chiede. Io non rispondo. Scappo.

Devo andare via. Non ti posso spiegare niente. Tu non c’entri nulla, vai per la tua strada, non sei tu che mi puoi aiutare.

Il cuore mi scoppia, lo sento rimbombare nelle orecchie, gli ultimi metri della calle li faccio di corsa. Eccola finalmente la riva, il Canal Grande, e lì il ponte di Rialto, tutto bianco leggero, un merletto di pietra che illumina la notte.

C’è qualcuno sul ponte. Vedo il flash di una macchina fotografica. Sento una risata, lieve come una cascatella senza pretese, acqua che rimbalza allegra da un sasso all’altro fino al fiume sottostante.

Un passo, un altro, ancora un altro. Il piede destro, poi il sinistro e di nuovo il destro. Un passo dopo l’altro, non è così difficile. Continua a respirare. Sei arrivata in cima al ponte, ora devi solo scendere, piano, senza correre.

Non serve correre. Nessuno ti sta inseguendo, a parte le ombre, ma da quelle tanto non si scappa.

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